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DUE PROPOSTE DI METODO PER SVEGLIARE L’UNIONE EUROPEA

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L’unico apparente risultato del Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre – definito impropriamente “storico” – è stato l’accordo a ventisei con l’astensione o, meglio, l’assenza di Viktor Orban per l’avvio dei negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldova insieme alla concessione dello status di candidato alla Georgia.

In qualche modo storico, ma con molti interrogativi sulle possibilità sostanziali di raggiungere l’obiettivo dell’abbandono dei combustibili fossili, potrebbe essere invece considerato il risultato della COP28 a Dubai, chiusa il giorno prima del Consiglio europeo per l’impegno – non vincolante (transitioning away) – di arrivare alla neutralità carbonica entro il 2050 soprattutto grazie al percorso avviato dall’Unione europea nel 2019 con il Patto Verde Europeo (European Green Deal) proposto dal Parlamento europeo e inserito come priorità dalla Commissione europea nel programma della legislatura.

Il Consiglio europeo ha poi semi-aperto la porta dei negoziati con la Bosnia Erzegovina e la Macedonia del Nord vincolandoli e condizionandoli tuttavia ad ulteriori passi in avanti nelle riforme interne.

Il Consiglio europeo non ha citato esplicitamente l’Albania, il Montenegro e la Serbia (dove le elezioni legislative hanno rafforzato la maggioranza assoluta della coalizione populista di Vucic) – inserendo questi paesi in un più generale capitolo dedicato ai Balcani occidentali (che “occidentali” non sono) - con i quali i negoziati sono già formalmente iniziati ma di fatto congelati da tempo formulando l’ipocrito auspicio di una loro generica accelerazione.

Il Consiglio europeo ha ignorato invece sia il Kosovo che, soprattutto, la Turchia che è ancora sulla carta un paese candidato all’adesione suscitando la scontata irritazione di Ankara.

Sia Paolo Gentiloni che Romano Prodi al Forum Europa del Partito Democratico ed Emmanuel Macron nella conferenza stampa a chiusura del Consiglio europeo hanno ricordato che i tempi per l’ingresso dei paesi candidati saranno molto lunghi e lo stesso Consiglio europeo ha sottolineato che i negoziati sono “reversible” e cioè che le loro conclusioni sono “open ended” ma tanto è bastato a Volodymyr Zelensky per affermare che l’Ucraina fa ormai parte della famiglia dell’Unione europea.

Non è emersa nel Consiglio europea l’idea avanzata dalla Assemblea nazionale francese (LINK) di aggiornare le procedure di adesione per impegnare all’inizio dei negoziati i paesi candidati ad un accordo politico collettivo sottoscritto da tutti i parlamenti nazionali sul rispetto della Carta dei diritti, della cooperazione leale, del primato del diritto comunitario e della reciproca solidarietà diplomatica e militare, per associarli poi alle politiche comuni coinvolgendo le amministrazioni e la società civile ispirandosi al metodo della Conferenza sul futuro dell’Europa e - solo alla fine di questo percorso - per procedere alla firma dei trattati di adesione sapendo che in molti casi essi dovranno essere ratificati per via referendaria nei paesi candidati e nei paesi membri e che le difficoltà di eventuali ratifiche dovrebbero essere risolte con degli accordi di associazione al di fuori del quadro istituzionale dell’Unione europea.

Il Consiglio europeo ha sposato invece la tesi secondo cui la riforma delle priorità dell’Unione europea, delle sue politiche e della sua capacità di agire deve essere “parallela” al processo di allargamento e cioè, per usare una nota espressione del linguaggio comunitario, che l’approfondimento e l’allargamento devono procedere mano nella mano sottolineando che anche l’approfondimento come l’allargamento è una prospettiva a “lungo termine”.

Queste immagini contrastano con la realtà di un’Unione europea incapace di decidere sulle questioni essenziali o, per meglio dire, esistenziali della sua dimensione geopolitica come è stato confermato dall’assenza di decisioni sul Medio Oriente e sulle politiche migratorie insieme allo scontro sulla revisione a metà percorso del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 in cui l’aspetto più grave non sta nel veto di Viktor Orban sugli aiuti all’Ucraina ma nella mancanza di ambizioni finanziarie e dunque politiche per gettare le basi di un bilancio federale nelle spese e nelle entrate indispensabile per garantire l’autonomia strategica europea nella politica industriale, nella difesa ed anche negli investimenti sociali di lunga durata, nel sostegno alla transizione ambientale e nell’intervento europeo per il governo delle politiche migratorie.

Temiamo che questa mancanza di ambizioni non troverà una risposta adeguata nel Consiglio europeo straordinario del 1° febbraio e che il Parlamento europeo debba prepararsi a non dare la sua approvazione alla futura decisione sul quadro finanziario pluriennale che non spetta al Consiglio europeo ma al Consiglio secondo l’art. 312.2 TFUE.

Al fine di rafforzare la dimensione della democrazia rappresentativa e coinvolgere tutte le forze politiche europee nel dibattito sul bilancio europeo, sarebbe importante mettere il tema del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e delle sue prospettive future dopo la conclusione del NGEU alla fine del 2026 all’ordine del giorno della Conferenza interparlamentare sulla stabilità, sul coordinamento economico e sulla governance economica che avrà luogo a Bruxelles sotto presidenza belga il 12 e 13 marzo 2024.

Per quanto riguarda le politiche migratorie il risultato del trilogo fra Parlamento europeo, ministri degli interni e Commissione europea sembra essersi concluso purtroppo con l’accettazione della linea del Consiglio dove gli stati non hanno ceduto sugli aiuti indiscriminati a paesi terzi e non hanno ampliato i criteri di Dublino nel senso del riconoscimento di legami significativi.

Da segnalare che il Consiglio europeo ha deciso di non decidere sulla adesione della Bulgaria e della Romania alla cosiddetta “area Schengen” relativa alla libera circolazione delle persone a cui ha già aderito la Croazia che è entrata nell’Unione europea dopo la Bulgaria e la Romania.

Sulla riforma dell’Unione europea, il Consiglio europeo ha rinviato ogni decisione alla definizione della “agenda strategica 2024-2029” e cioè ad un esercizio puramente intergovernativo che i Capi di Stato e di governo considerano da tempo come una materia di loro esclusiva competenza e che adottano all’inizio di ogni legislatura – come hanno fatto nel 2014 e nel 2019 – ritenendo di poterla imporre alla nuova Commissione europea e al Parlamento europeo eletto.

Seguendo gli orientamenti suggeriti su iniziativa spagnola dal Consiglio affari generali del 12 dicembre in cui si è grottescamente affermato che le raccomandazioni delle Conferenza sul futuro dell’Europa sono state attuate o sono in via di attuazione a trattato costante, il Consiglio europeo ha volutamente ignorato il progetto votato dal Parlamento europeo il 22 novembre – in cui si sostiene che l’approfondimento debba precedere l’allargamento e che il superamento del Trattato di Lisbona del 2009 debba avvenire “fra i paesi che lo vorranno” per usare una espressione di François Mitterrand – essendo noto che almeno sedici governi su ventisette sono ostili all’idea di mettere mano alla revisione dei trattati e che fra tutti i governi prevale invece l’idea di introdurre delle limitate modifiche attraverso una conferenza intergovernativa (e cioè la “procedura semplificata” prevista dall’art. 48.7 TUE) o di introdurle nei trattati di adesione come sarebbe consentito dal Trattato (art. 49 TUE).

L’ostilità della maggioranza dei governi nel Consiglio europeo all’idea di convocare una convenzione per modificare il Trattato di Lisbona rischia di neutralizzare la decisione procedurale adottata dal Consiglio ambiente del 18 dicembre di trasmettere ai capi di Stato e di governo e di notificare ai parlamenti nazionali il progetto votato del Parlamento europeo se la via che sarà scelta dal Consiglio europeo - quando sarà adottata a fine giugno l’agenda strategica 2024-2029 dopo due Vertici straordinari a metà aprile e a metà giugno -  sarà quella di una procedura semplificata per ampliare i settori in cui il Consiglio può decidere a maggioranza qualificata o di introdurre delle parziali revisione dei trattati nei trattati di adesione per rafforzare la capacità di decisione dell’Unione europea aggiornando le politiche comuni.

Il Parlamento europeo non ha certo contribuito a creare una adeguata aspettativa pubblica ed istituzionale sul tema della riforma dell’Unione europea perché il progetto votato il 22 novembre è stato elaborato da cinque relatori senza trasparenza, sottoposto ad un dibattito parlamentare in una sessione carica di temi divisivi come il regolamento sugli imballaggi e i pesticidi, frutto di un complicato e talvolta contraddittorio compromesso fra i gruppi politici in cui ciascuno di essi ha cercato di metterci il suo segno distintivo in un coacervo di duecentosessanta proposte di modifica del trattati con il risultato che le divisioni fra i gruppi e all’interno dei gruppi sono esplose in aula facendo saltare alcuni importanti elementi innovativi e giungendo ad un voto finale politicamente preoccupante con 44 astensioni, 274 voti contrari, 291 favorevoli, quasi cento assenti e due terzi del PPE schierati con i conservatori ed i sovranisti.

Sarebbe stato molto utile ed istruttivo, anche in vista delle elezioni europee del prossimo mese di giugno, leggere sulla stampa e sui media un’analisi delle ragioni politiche di quel voto e di quelle divisioni con un significato insieme europeo e nazionale fra cui quelle più rilevanti riguardano i partiti che sostengono il governo Meloni in Italia dove i deputati europei di Fratelli d’Italia e della Lega hanno votato contro mentre quelli di Forza Italia (con due eccezioni) hanno votato a favore e tutto il governo ha respinto a Palazzo Madama e a Montecitorio le risoluzioni delle opposizioni in cui si chiedeva l’impegno dell’Italia per il superamento del Trattato di Lisbona e l’avvio di una fase democratica e costituente dopo le elezioni europee.

Il silenzio della stampa e dei media in tutta l’Unione europea sul voto del 22 novembre, aiutato anche dallo scarso rilievo dato dai servizi di informazione del Parlamento europeo, è stato invece assordante e ciò dovrebbe sollecitare l’attenzione dei partiti europei e nazionali che hanno sostenuto quel progetto per creare un ampio consenso nelle opinioni pubbliche indispensabile quando sarà necessario riaprire il cantiere della riforma dell’Unione europea nella prossima legislatura.

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20 dicembre 2023

  

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