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Nella Costituzione francese del 1789 fu scritto che l’essere umano nasce “libero e eguale” ma la storia dell’umanità ci ha insegnato che in molte parti del mondo gli esseri umani non sono nati e non nascono ancora liberi ed eguali

  • perché la schiavitù (la cui etimologia deriva dal latino medioevale slavus e cioè “prigioniero di guerra slavo”) ha caratterizzato tutti i continenti del pianeta per secoli e ancora oggi si calcola che quasi trenta milioni di persone siano ridotte in schiavitù,
  • perché è stato affermato e praticato attraverso il genocidio non solo nei regimi autoritari ma anche nelle nascenti democrazie il principio delle razze superiori e delle razze inferiori (The dark side of democracy: explaining ethnic cleansing Michael Mann, Cambridge 2005),
  • e perché la privazione dei diritti essenziali (alla vita, all’integrità fisica, al divieto di trattamenti umani e degradanti, al divieto del lavoro forzato, alla libertà di pensiero, all’asilo e alla non discriminazione) si è purtroppo estesa in un numero crescente di Stati nel mondo.

Fra i diritti essenziali o meglio come fondamento dei diritti essenziali la dignità umana ha ispirato la Carta delle Nazioni Unite del 1945 e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 mentre il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 hanno posto nei rispettivi preamboli il principio della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana” e che “questi diritti derivano dalla dignità inerente alla persona umana”.

La Legge Fondamentale della Germania Federale del 23 maggio 1949 afferma nel suo articolo 1 che “la dignità umana è intangibile” e che “è dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”, una clausola generale che è stata ripresa quasi integralmente nell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che recita “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.

Fra gli orrendi crimini che l’armata russa su ordine di Vladimir Putin e dei suoi generali sta compiendo e si prepara a perpetuare in Ucraina vi è il disprezzo della dignità umana su donne, minori e uomini, su tutta la popolazione civile oltre che sull’esercito ucraino e che potrebbe raggiungere il suo culmine se l’autocrate di Mosca decidesse di far sfilare i prigionieri ucraini umiliandoli come i sovietici fecero sfilare sulla Piazza Rossa nel 1945 i prigionieri del Terzo Reich.

La Russia si è così messa fuori dalla Carta delle Nazioni Unite e ha violato ripetutamente la Dichiarazione del 1948 e il Patto del 1966 mentre questo disprezzo è una causa inappellabile che giustifica l’azione – tutte le azioni - dell’Unione europea e dei suoi Stati membri contro le autorità russe e i loro complici pubblici e privati fra i quali l’autocrate della Bielorussia Aleksandr Lukashenko.

Si è discusso e si discute sugli strumenti giurisdizionali di cui dispone la comunità internazionale per agire contro le violazioni della Carta delle Nazioni Unite e delle sue convenzioni oltre che sulle sanzioni economiche e finanziarie contro la Russia, sull’embargo – che il Parlamento europeo ha chiesto che sia “totale” – all’export di petrolio, carbone, gas e combustibili nucleari dalla Russia e sugli aiuti economici, finanziari, alimentari, sanitari ma anche militari all’Ucraina.

Nonostante l’impegno del Procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI), con il sostegno di molti Stati e di organizzazioni non governative e con l’aiuto di Eurojust e di Europol, noi sappiamo che la CPI non può andare al di là della condanna dei crimini commessi, che alla condanna sarà molto difficile se non impossibile far seguire l’espiazione della pena da parte dei condannati come è invece avvenuto a Norimberga, in Giappone, in Israele per i crimini nazisti e come è avvenuto di fronte al Tribunale per la ex-Jugoslavia con la condanna dell’ex presidente della Serbia Slobodan Milosevic a cui si sono aggiunte novanta condanne per genocidio, di fronte al Tribunale per il Ruanda in cui sono stati condannati 61 criminali di guerra o di fronte alla stessa CPI che ha emesso dalla sua istituzione 40 mandati di arresto ma con solo cinque condanne per crimini contro l’umanità e crimini di guerra con un bilancio evidentemente troppo limitato se si tiene conto dell’ampiezza dei crimini compiuti nel mondo.

Oltre alla condanna la CPI non può andare perché non ha i mezzi per imporre la riparazione dei danni e non ha nessuna funzione deterrente per prevenire i crimini di guerra o contro l’umanità e per interrompere la loro prosecuzione.

Di  fronte a quest’impotenza ed al fatto che la CPI non è stata riconosciuta dagli Stati Uniti, dalla Russia, dalla Cina, da Israele, dalla Siria e dall’India oltre che inizialmente dalla stessa Ucraina si pone l’urgenza e la necessità di mettere al centro della ormai improcrastinabile riforma del sistema delle Nazioni Unite – che si è ancora una volta dimostrato inadeguato per fermare la guerra in Ucraina – il rafforzamento della capacità di intervento della CPI nei suoi poteri di prevenzione, condanna e di indennizzazione delle vittime ispirandosi al principio affermato da Martin Luther King nel carcere di Birmingham secondo cui “Injustice anywhere is a threat to justice everywhere. We are caught in an inescapable network of mutuality, tied in a single garment of destiny. Whatever affects one directly, affects all indirectly.”

Oltre al rafforzamento della missione e dei poteri della CPI, il governo della giustizia e della pace nel mondo esige che la riforma delle Nazioni Unite renda efficace e rapida la sua funzione di polizia internazionale umanitaria e cioè di peace enforcement per prevenire e reprimere le decine di conflitti che insanguinano il pianeta dall’Etiopia allo Yemen, dalla Siria al Sahel, in Nigeria e in Afghanistan, in Libano e in Libia, nel Sudan e ad Haiti, in Colombia e nel Myanmar, nella Repubblica “democratica” del Congo e in molti altri luoghi ancora come è costantemente testimoniato dall’organizzazione non governativa ACLED: Armed Conflict Location and Event Data Project (https://acleddata.com).

Le Nazioni Unite, nate come spazio universale per la promozione della pace e della sicurezza internazionale, hanno risorse inadeguate per prevenire o interrompere i conflitti che insanguinano il pianeta se si considera che l’intervento delle Forze di interposizione deve essere normalmente autorizzato dalle due parti in conflitto, che nessuno tutela gli interessi delle popolazioni locali quando il conflitto è la conseguenza di una guerra civile e che il bilancio destinato ai “caschi blu” rappresenta meno dell’1% della spesa militare mondiale stimata a 1800 miliardi di dollari all’anno.

La comunità internazionale e con essa l’OSCE e l’Unione europea non sono state in grado di prevedere – fatta eccezione per i servizi di intelligence degli Stati Uniti - la guerra “illegale” scatenata senza giustificazione alcuna dalla Russia contro l’Ucraina e di far interrompere le operazioni militari.

L’unica strada per ora percorribile appare a noi essere l’invio in Ucraina – su decisione a maggioranza qualificata della Assemblea Generale delle Nazioni Unite e andando al di là dello stallo nel Consiglio di Sicurezza - delle Forze di interposizione (i Caschi Blu) previste per garantire le operazioni di peace enforcement la cui missione – è bene ricordarlo - non è offensiva, come è avvenuto su decisione della Assemblea ad  Haiti nel 2000-2001 e seguendo l’esempio delle missioni delle Nazioni Unite nella guerra tra Eritrea e Etiopia (2000-2008), nel conflitto del Darfur (2007-2010), nella guerra indo-pakistana (1965), nella guerra sovietico-afghana (1988-1990), nella guerra cambogiana-vietnamita (1991-1993), nelle invasioni indonesiane a Timor Est (1999-2005), nelle guerre iugoslave all’inizio degli anni ’90 e poi nella crisi di Suez (1956-1957), nella guerra Iran-Iraq (1988-1991) e nella guerra del Golfo (1991-2003), nella guerra dello Yom Kippur (1973-1979) e infine nell’invasione israeliana del Libano nel 2006.

Se sarà accettata dalla Russia e dall’Ucraina la proposta del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, di un temporaneo “cessate il fuoco”, l’Assemblea generale delle stesse Nazioni Unite dovrebbe cogliere immediatamente l’occasione per inviare sul territorio ucraina delle Forze di interposizione per garantire il rispetto di far tacere – seppure temporaneamente le armi.

Se Vladimir Putin dovesse decidere successivamente di usare la violenza militare contro quelle forze egli porrebbe la Russia al di fuori di tutta la comunità internazionale e creerebbe le condizioni di una sua immediata espulsione dalle Nazioni Unite rendendo inevitabile un pesante intervento di polizia internazionale.

La gravità eccezionale di quel che sta avvenendo dal 24 febbraio in Ucraina e il rifiuto di Vladimir Putin di accettare l’avvio di un vero negoziato di pace esigono ormai l’uso di strumenti eccezionali.

 

Roma, 20 aprile 2022

PIER VIRGILIO DASTOLI

In memoria di Carlo Parietti, tenace sostenitore delle azioni di peace enforcement previste dallo Statuto delle Nazioni Unite

 

DIGNITA’ UMANA, GUERRA IN UCRAINA E POLIZIA INTERNAZIONALE

 

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Molto è stato già detto e scritto di quel che è avvenuto ad Ankara il 6 aprile quando la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno incontrato il capo dello Stato turco Recep Tayyip Erdogan per riaprire il dialogo fra l’Unione europea e la Repubblica di Turchia sulla “agenda positiva” auspicata dal Consiglio europeo del 25 marzo.

La questione provocata dal sofagate e le relazioni con la Turchia – anche dopo la conferenza stampa del premier Mario Draghi che ha definito Erdogan “un dittatore con cui è necessario cooperare” – occuperanno a lungo l’agenda europea con effetti temporaneamente positivi nelle relazioni fra il Consiglio europeo e la Commissione europea perché Charles Michel è stato costretto a condividere, davanti alla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi politici nel Parlamento europeo, l’interpretazione autentica del Trattato di Lisbona esposta da Ursula von der Leyen secondo cui le due istituzioni sono, nelle relazioni esterne, su un piano di perfetta uguaglianza sulla base degli articoli 15 e 17 TUE.

I temi dell’incontro di Ankara – precisati del resto dallo stesso Charles Michel nella sua intervista del 10 aprile a vari quotidiani europei  (la modernizzazione dell’Unione doganale in vigore dal 1995, la cooperazione economica nel quadro dell’accordo di associazione del 1963, il rinnovo degli accordi sui migranti siriani del 2016 in cambio di ulteriori aiuti finanziari dell’UE alla Turchia, la politica dei visti per l’ingresso dei cittadini turchi nell’Unione europea) – erano del resto tutti relativi alle relazioni bilaterali fra l’Unione europea e la Repubblica turca con l’obiettivo di superare le tensioni nel Mediterraneo provocate dall’invio di navi turche al largo di Cipro e della Grecia e nelle loro acque territoriali.

Questi temi devono essere affrontati dall’Unione europea avendo come priorità la necessità e l’urgenza del rispetto dei diritti fondamentali e dello stato di diritto a cominciare dalla immediata liberazione dei prigionieri politici, sindacali, del mondo dell’informazione, della giustizia e dell’università, dalla separazione dei poteri fra governo e magistratura e dal ritorno della Turchia nella Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne.

Questi temi non comprendevano dunque le questioni relative alla politica estera e della sicurezza dell’Unione europea e per questa ragione non era stata prevista ad Ankara la presenza di Josep Borrell Fontelles, Alto Rappresentanza dell’Unione europea per gli affari esteri e la sicurezza.

In questo quadro la partecipazione di Charles Michel all’incontro di Ankara era non solo irrilevante ma contraria allo spirito e alla lettera dei trattati che hanno stabilito una bizantina e inefficace natura tricefala dell’Unione europea in materia di politica estera e di azioni esterne attribuendo diverse responsabilità al Consiglio europeo e al suo Presidente e alla Commissione europea e al suo presidente e infine all’Alto Rappresentante per gli affari esteri e della sicurezza sotto il parziale controllo del Parlamento europeo.

Dopo l’incontro di Ankara Ursula von der Leyen si è recata da sola in Giordania perché anche in questo caso si trattava di discutere di questioni bilaterali e non di politica estera e di sicurezza.

La partecipazione di Charles Michel all’incontro di Ankara si spiega – ma non si giustifica – per il suo eccesso di interventismo che lo ha spinto fin dalla sua elezione il 1° dicembre 2019 ad agire al di là dei trattati come se egli fosse il Presidente di tutta l’Unione europea.

Vale la pena di ricordare il passo indietro del Trattato di Lisbona, rispetto al Trattato-costituzionale, che separò le materie rilevanti dalla politica estera e di sicurezza ivi compresa la dimensione della difesa iscrivendole nel Trattato sull’Unione europea (art. 21-46 del TUE) dalle azioni esterne (politica commerciale, cooperazione con i paesi terzi e aiuto umanitario, conclusioni di accordi internazionali, relazioni con le organizzazioni internazionali e clausola di solidarietà) comprese negli articoli 205-222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) dove il Consiglio europeo è totalmente assente.

La separazione fra politica estera propriamente detta e azioni esterne (in particolare in materia economica) fu pretesa nella Conferenza intergovernativa che fece seguito al fallimento del Trattato-costituzionale per sottolineare il carattere intergovernativo della prima e la natura comunitaria delle seconde con un approccio che nuoce alla leggibilità dei Trattati e all’efficacia del ruolo internazionale dell’Unione europea.

L’esperienza ci ha dimostrato che l’efficacia non può essere raggiunta riunendo sotto la responsabilità del Presidente del Consiglio europeo compiti di orientamento, di rappresentanza, di capacità negoziali ed infine esecutive che sono state immaginate invece per l’Alto Rappresentante nel tentativo di assicurare una crescente coerenza internazionale all’azione dell’Unione europea.

Poco importa che il protocollo istituzionale del 2011 dia formalmente la precedenza al Consiglio europeo e al suo Presidente rispetto alla Commissione europea e al suo Presidente nelle occasioni appunto protocollari (pranzi, cene ed eventi simili) perché nei vertici internazionali (ad esempio il G7 e il G20) ad essi viene attribuito esattamente lo stesso rango.

Nonostante la natura tricefala nelle relazioni esterne, il Consiglio europeo e in particolare il suo presidente (prima Herman Van Rompuy ed ora Charles Michel) hanno adottato una interpretazione dolosamente erronea delle disposizioni del Trattato di Lisbona.

Nel caso di Herman van Rompuy egli ha creato intorno a sé una rete degli sherpa dei capi di Stato e di governo che hanno di fatto escluso il lavoro negoziale del Comitato diplomatico dei rappresentanti permanenti a Bruxelles e, al di sopra del Comitato, il ruolo dei ministri degli esteri e degli affari europei riducendo ad un compito amministrativo l’azione della Commissione europea (qualcuno usò l’espressione sherpacrazia).

Ancor peggio è avvenuto nel caso di Charles Michel dove il Consiglio europeo ha assunto sotto la sua guida e per sé un ruolo di decisione legislativa che, in base all’art. 15 TUE, non gli spetta (“Il Consiglio europeo – recita il Trattato - dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Esso non esercita alcuna funzione legislativa”) così come è stato denunciato dal Parlamento europeo a proposito del negoziato sul Quadro Finanziario Pluriennale. [*]

Charles Michel ha evidentemente mal sopportato il ruolo motore della Commissione europea nel piano di ripresa e resilienza (il Recovery Plan ribattezzato Next Generation EU che ha permesso di accantonare l’approccio esclusivamente intergovernativo del progetto franco-tedesco del Recovery Fund) e non ha perso occasione per cercare di affermare ultra vires il primato del Consiglio europeo su quello della Commissione europea.

Come si direbbe a Roma, Charles Michel si è “imbucato” nella missione di Ankara – sostenuto dai suoi colleghi capi di Stato e di governo e supportato dai suoi servizi - istruendo in sovrappiù la delegazione dell’Unione europea presso la Repubblica di Turchia sulle modalità della partecipazione dei due presidenti europei all’incontro con Erdogan e con il suo ministro degli esteri.

Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che Charles Michel si sia accomodato senza fiatare accanto al capo dello Stato turco lasciando in piedi – stupefatta – la presidente della Commissione europea.

Vale la pena di aggiungere la grave colpa in vigilando del delegato ad Ankara dell’Unione europea, il tedesco Nikolaus Meyer-Landrut, che - pur avendo debolmente e inizialmente tentato di resistere alle istruzioni del protocollo di Charles Michel - non ha informato preventivamente i servizi della Commissione europea di una situazione che avrebbe inevitabilmente creato un grave incidente diplomatico.

Interrogato il 10 aprile da alcuni quotidiani europei, fra cui Il Sole 24 Ore, l’ineffabile Charles Michel – dopo aver confessato che “l’incidente di Ankara mi toglie il sonno” – ha inteso ribadire la sua interpretazione immobilista della natura claudicante del sistema istituzionale europeo, una natura resa ancora più evidente dal sofagate, rivendicando il principio della doppia legittimità comunitaria e nazionale e la convinzione che l’Unione europea debba continuare a camminare su queste due gambe dovendo poi esprimere un’opinione diversa per rispondere alle vivaci critiche del Parlamento europeo.

Dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona in poi, si è accresciuto lo squilibrio fra le due gambe, non solo per quella che Carlo Azeglio Ciampi chiamava la zoppia dell’Unione economica e monetaria e che ha pesato drammaticamente durante tutti gli anni della crisi finanziaria, ma a causa della prevalenza crescente del metodo intergovernativo o confederale e dell’incompiutezza della gamba comunitaria con particolare riferimento al ruolo internazionale dell’Unione europea, nella gestione dei flussi migratori e,  più recentemente, nella lotta alla pandemia, nella campagna di vaccinazione e nella mancanza di una politica industriale europea nel settore della ricerca e della produzione farmaceutica.

Il Parlamento europeo e la Commissione europea non possono accettare che il piombo della cosiddetta legittimità nazionale, di cui ha parlato Charles Michel e che egli ha mostrato con imperdonabile arroganza nel palazzo presidenziale di Ankara, pesi a tal punto sulle già gracili ali del dibattito sul futuro dell’Europa da costringere l’Unione europea ad un inaccettabile status quo con la conseguenza di farla regredire verso un concerto cacofonico di apparenti interessi nazionali.

Già nella sessione plenaria del 26-29 aprile il Parlamento europeo esprimerà un forte e negativo giudizio politico ed istituzionale delle ragioni, che non riguardano il galateo né l’equilibrio di genere, alle origini del sofagate aprendo di fatto il dibattito sul futuro dell’Europa a partire dalla mostruosa natura tricefala dell’Unione europea.

In attesa della riforma profonda del sistema europeo, il Trattato di Lisbona consentirebbe di unificare le presidenze del Consiglio europeo e della Commissione europea attribuendo al(la) Presidente della Commissione - alla scadenza di due anni e mezzo del mandato di Charles Michel che terminerà il 31 maggio 2022 o prima di questa data per faute grave e a maggioranza qualificata come prevede l’art. 15 par. 5 TUE - la presidenza del Consiglio europeo.

Si rafforzerebbe così il controllo del Parlamento europeo sul vertice dei capi di Stato e di governo come avviene già per l’Alto Rappresentante per gli affari europei e la sicurezza e come dovrebbe avvenire per il presidente dell’Eurogruppo se si vuole avviare il consolidamento del ruolo internazionale dell’euro e rendere più coerente la politica economica e monetaria della zona euro attribuendone la presidenza al vicepresidente della Commissione per gli affari economici e monetari e l’euro.

Al fine di garantire un adeguato equilibrio politico fra le funzioni di leadership nelle istituzioni europee all’interno della maggioranza che si è costituita intorno alla Commissione von der Leyen (PPE), che ha portato all’elezione di David Maria Sassoli alla presidenza del PE (S&D) e di Charles Michel (ALDE) alla presidenza del Consiglio europeo un accordo interistituzionale potrebbe consentire di confermare David Sassoli fino alla fine della legislatura nel 2024 e attribuire a Guy Verhofstadt la presidenza della Conferenza sul futuro dell’Europa.

Così facendo renderemmo contemporaneamente meno claudicante la democrazia europea in statu nascendi e porremmo il tema essenziale dell’alternativa fra apparenti sovranità nazionali e sovranità europea nell’agenda della Conferenza sul futuro dell’Europa creando le condizioni istituzionali dell’autonomia strategica dell’Unione europea.

Pier Virgilio Dastoli

12 aprile 2021

 

[*] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2021/662611/EPRS_IDA(2021)662611_EN.pdf

 

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Le scarne indiscrezioni che filtrano sui colloqui tra Mario Draghi e i partiti indicano piuttosto chiaramente l’intenzione del presidente del Consiglio designato di dare una forte centralità all’iniziativa che il nuovo governo italiano dovrebbe assumere in materia di riforma delle istituzioni dell’Unione europea. In particolare Draghi avrebbe in mente un pacchetto di riforme che corrisponde significativamente alle proposte degli ambienti politici italiani più orientati al rafforzamento delle istituzioni stesse, alla necessità di un loro buon funzionamento e del loro carattere democratico. Nei giorni scorsi abbiamo presentato su strisciarossa cinque punti che il Movimento Europeo sottopone all’attenzione del presidente incaricato (http://www.strisciarossa.it/cinque-priorita-per-un-governo-davvero-europeista/) e che lui, stando anche a quanto ha riferito nella sua conferenza stampa Bruno Tabacci, avrebbe considerato favorevolmente. Li riassumiamo brevemente: il superamento del voto all’unanimità, una sovranità condivisa su materie che ora sono di competenza nazionale, uno ius soli europeo, una capacità fiscale dell’Unione autonoma dai bilanci nazionali, il rispetto dello stato di diritto.

Durante gli anni della sua presidenza a Francoforte Mario Draghi ha avvertito più volte la classe politica europea che la BCE poteva fare molto per difendere l’euro dagli attacchi speculativi ma aggiungeva “abbiamo fatto abbastanza? Sì – si rispondeva – abbiamo fatto abbastanza. Ma possiamo fare di più” e quel “possiamo” si riferiva all’idea che – tutti insieme – bisognava andare “alla ricerca di un’Unione più perfetta”.

In più occasioni e soprattutto in Germania, Mario Draghi ha sottolineato l’esigenza della partecipazione dei cittadini (demokratische Teilhabe) e, citando Jürgen Habermas, di uno spazio pubblico europeo per garantire la legittimità democratica delle scelte europee di cui la politica monetaria e l’euro hanno un carattere irreversibile ma che, da sole, possono provocare effetti negativi.

Nel perimetro europeo di Mario Draghi si colloca innanzitutto il completamento dell’Unione economica e monetaria che fu precisato nel 2015 prima dalla Commissione europea e poi dal “rapporto dei cinque presidenti” (di cui uno e certamente il principale proprio lui) che indicava gli obiettivi ma anche una tabella di marcia di quattro unioni: economica, finanziaria, fiscale (cioè di bilancio) e democratica.

Quel rapporto è rimasto, largamente inattuato, negli archivi delle istituzioni europee ma Draghi è tornato più volte sui rischi di un’unione imperfetta mettendo prima l’accento sulla necessità di una politica fiscale europea (conferenza al Financial Times a conclusione della presidenza della BCE, 2019) e poi sulle diseguaglianze in particolare generazionali (discorso al Meeting di Rimini, 2020).

Le sfide di fronte alle quali si trova un’unione imperfetta sono andate nel frattempo crescendo al suo interno anche a causa della pandemia ma non solo: pensiamo alle conseguenze ancora imprevedibili della Brexit e alla centralità della sostenibilità ambientale e sociale. E sono cresciute anche nei rapporti dell’Unione europea con il resto del mondo.

Alle antiche e alle nuove sfide si aggiunge il cambiamento radicale imposto dall’urgenza e dalla necessità di politica di convergenza, di prosperità e di coesione che nel “rapporto dei cinque presidenti” era considerata la chiave dell’Unione monetaria. Questo cambiamento si identifica nel piano per la ripresa (Recovery Plan) dotato di 750 miliardi di euro per tre anni battezzato dalla Commissione europea Next Generation EU – di cui il 9 febbraio il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza lo strumento principale (Recovery and Resilience Facility) – ma soprattutto la creazione di debito pubblico europeo e la sospensione (temporanea) del Patto di Stabilità e delle regole sugli aiuti di Stato.

Il piano per la ripresa è agganciato al bilancio europeo (quadro finanziario pluriennale 2021-2027) perché la garanzia del debito pubblico europeo sarà data dalle risorse proprie che sono finora rimaste ferme all’1% del reddito globale dell’Unione europea e che la Commissione ha chiesto agli Stati di raddoppiare. Si tratta di una delle prime decisioni che dovrà prendere il Parlamento italiano per dare un segnale immediato agli altri parlamenti nazionali ma, per evitare che il debito sia rimborsato dai cittadini europei dopo il 2027, la Commissione europea ha annunciato che intende proporre di sostituire gradualmente i contributi nazionali con “tasse europee” sui giganti del web (web tax), sui prodotti ad alto contributo di carbonio (carbon tax), sulla plastica, sulle emissioni di gas (EU Emissions Trading System) ma anche con una quota delle imposte sulle società per avviare l’Unione verso una politica fiscale più equa e combattere elusione e paradisi fiscali che creano gravi distorsioni al mercato interno.

Se l’aumento delle risorse dall’1 al 2% dovesse passare senza troppe difficoltà dalle forche caudine delle ventisette ratifiche parlamentari nazionali anche nei paesi cosiddetti frugali (con un occhio alle elezioni olandesi del 17 marzo), la strada sarà più impervia per le nuove tasse europee su cui sta lavorando il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, il quale sarà certo aiutato da un gioco di squadra tutto italiano con Mario Draghi sapendo che le nuove tasse dovranno essere operative ben prima del 2027.

Il presidente del Consiglio designato sa bene che la politica fiscale europea è paralizzata dal principio del voto all’unanimità nel Consiglio e che il blocco è diventato ancora più granitico da quando il Consiglio europeo ha deciso – in violazione del Trattato – di avocare a sé delle decisioni che spettano ai ministri.

La lista delle politiche sottoposte al vincolo dell’unanimità è lunga nonostante i passi in avanti compiuti dal Trattato di Maastricht in poi impedendo all’Unione di agire nei settori in cui gli Stati sono incapaci di decidere ciascuno per sé e va ben al di là della politica fiscale, giacché comprende una parte importante della politica sociale, dello spazio di libertà e giustizia, delle misure contro le discriminazioni, della politica economica e ambientale, dell’estensione dei diritti di cittadinanza e di tutta la politica estera e di sicurezza.

Né il metodo della cooperazione rafforzata, introdotto con il Trattato di Amsterdam nel 1999, né la cosiddetta “clausola della passerella” che consentirebbe al Consiglio europeo di autorizzare il Consiglio a decidere a maggioranza hanno frantumato il blocco delle decisioni unanimi. L’unica via percorribile sarebbe quella della revisione dei Trattati, la quale sarebbe però sottomessa anch’essa all’accordo unanime dei governi e alla ratifica di tutti i parlamenti nazionali. Una situazione apparentemente inestricabile che spinse il Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 a proporre una riforma globale delle Comunità europee e l’introduzione di un metodo costituzionale di integrazione differenziata (Progetto Spinelli), ripreso da Romano Prodi durante i lavori della Convenzione per una costituzione europea nel 2002 (Documento Penelope).

L’ostacolo dell’unanimità non rappresenta la sola imperfezione dell’Unione europea perché le sfide antiche e nuove e da ultimo l’emergenza sanitaria hanno posto la questione di una diversa ripartizione delle competenze fra il livello europeo e il livello nazionale senza dimenticare la dimensione locale delle città. Più volte Mario Draghi ha sollevato la necessità di rivisitare il cosiddetto “principio di sussidiarietà e di proporzionalità”, di cui si discute in dottrina se abbia un’origine cattolica o protestante, attribuendo all’Unione delle responsabilità più ampie di quelle che le sono state attribuite dai Trattati (salute, sociale, politica migratoria, politica industriale e digitale, relazioni esterne) e abbandonando il principio – sovranista – secondo cui sono gli Stati a cedere competenze all’Unione (in tedesco Kompetenz-kompetenz) per abbracciare quello tutto federale introdotto nella Legge Fondamentale tedesca del 1949.

L’aumento delle competenze dell’Unione europea ci ricollega alla questione del bilancio e delle risorse per finanziarlo e all’esigenza di uscire dal recinto delle polemiche sui “contributori netti” e sul giusto ritorno seguendo la via indicata dalla Commissione di tasse europee per creare beni comuni a dimensione transnazionale. In questo quadro si colloca il tema di un prolungamento fino al 2030 di un Recovery Plan come strumento della realizzazione dello European Green Deal in coerenza con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile.

Il perimetro europeo di Mario Draghi non si limiterà all’economia, se andiamo a rileggere i suoi interventi “politici” (al Meeting di Rimini, al Premio De Gasperi a Trento, all’’Università di Helsinki e altri) che fissano la distinzione programmatica fra europeismo e sovranismo.

Pensiamo allo ius soli europeo come conseguenza del principio della accoglienza e lo sviluppo di una vera cittadinanza europea nella consapevolezza che essa è posta a fondamento del principio di non-discriminazione di tutte le persone che risiedono nell’Unione europea.

Pensiamo infine al rispetto dello stato di diritto, come condizione per aderire e/o appartenere all’Unione europea, così come declinato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in coerenza con i principi della Carta delle Nazioni Unite nelle relazioni con i paesi terzi.

Si tratta di una materia di discussione molto ricca, in vista della Conferenza sul futuro dell’Europa, con cui dovrà cimentarsi anche l’eterogenea maggioranza che sosterrà il governo Draghi.

 

PIER VIRGILIO DASTOLI
11 febbraio 2021

 

 

 

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Da oggi e per dodici mesi, l’Italia assumerà per la prima volta la presidenza del G20 - la rete dei paesi più sviluppati nel mondo per percentuale del PiL (90%), di import/export (80%), di popolazione (2/3), di terre coltivate (60%) e di prodotti agricoli (80%) –  di cui l’evento principale sarà il vertice dei leader, in presenza se la pandemia lo consentirà, il 30 e 31 ottobre a Bari che farà seguito al G7 sotto presidenza britannica e precederà la COP26 di Glasgow dal 1° al 12 novembre.

Si tratta di una rete intergovernativa nata a Washington nel 2008, dopo l’esplosione della più grande depressione ottanta anni dopo quella del 1929, con l’obiettivo o meglio l’illusione che i “grandi del pianeta” - in un coacervo di democrazie liberali e di paesi autoritari, di sistemi di mercato libero e di capitalismo di Stato, di economie provenienti da decenni di sviluppo industriale e di sistemi produttivi di nuova industrializzazione, di paesi impegnati nel rispetto dello sviluppo sostenibile e Stati ancora molto al di sotto dei criteri di una società gradualmente indipendente da carbonio – sarebbero stati in grado di governare il pianeta sulla via di una cooperazione internazionale fondata sul principio: nessuno resti indietro.

Così non è stato perché tutte le discussioni avvenute dal 2008 in poi intorno al capezzale del sistema finanziario internazionale non hanno portato a nessun risultato tangibile, il pianeta è bel lontano dal rispetto delle tappe intermedie per la realizzazione degli obiettivi dello sviluppo sostenibile entro il 2030, e fra i venti (che, come sappiamo, sono diciannove membri permanenti a cui si aggiunge l’Unione europea in quanto tale e poi gli invitati permanenti come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’OCSE e l’ONU) nessuno ha avuto l’idea di rimettere sul tavolo la questione della riforma del Consiglio di sicurezza dell’ONU – ferma da anni – e su cui si è costituito il gruppo Uniting for Consensus di cui è parte attiva il governo italiano.

Fra le proposte, ancora molto minimaliste, del gruppo vi è quella di evitare lo scoglio dei seggi permanenti rafforzando la rappresentatività dei gruppi regionali  e assegnando all’Africa il maggior numero di seggi temporanei (ma di lunga durata), riconoscendo all’Asia-Pacifico il più alto incremento percentuale e raddoppiando i seggi di America Latina e Europa orientale.

Se si vuole rilanciare al G20 sotto presidenza italiano una global governance che rimetta all’ordine del giorno il multilateralismo - accantonato durante il quadriennio di Donald Trump ma non solo da Trump – facendolo ruotare intorno all’agenda delle “tre P” (People, Planet,. Prosperity), bisogna partire dall’obiettivo prioritario: nessuno resti indietro.

Circola un mappamondo del G20 dove sono indicati con vari colori i paesi membri di diritto del G20, gli invitati permanenti e i possibili invitati nel 2021 che erano già al tavolo virtuale del Vertice a Riad nel 2020.

Colpisce l’occhio geopolitico l’assenza totale fra le tre categorie dei partecipanti – con la sola eccezione del Sud Africa – dei cinquantacinque Stati che fanno parte dell’Unione africana in un vertice e in decine di incontri propedeutici e paralleli in cui si discuterà, ma non si deciderà data la natura del G20, delle conseguenze sociali della digitalizzazione, dei cambiamenti climatici, delle fonti energetiche sostenibili, del commercio internazionale, del terrorismo internazionale e last but not least della lotta alle pandemie “in vista di una ripresa sostenibile, giusta e resiliente”.

Ciascuno dei temi che saranno in agenda al G20 contiene una domanda a cui i leader non saranno quasi certamente in grado di rispondere, che riguarda tutti e cinque i continenti e che è legata al fenomeno epocale dei flussi migratori destinati a crescere a causa degli effetti del cambiamento climatico, delle conseguenze sociali della pandemia e di un commercio internazionale sempre meno equo e solidale.

Tutto ciò spinge ad invitare al tavolo dei leader i rappresentanti dell’Unione africana non potendosi sostenere che il leader del Sud Africa ne è il presidente e che dunque potrà essere a Bari a doppio titolo.

Suggeriamo al governo italiano di offrire come lettura essenziale ai leader alle delegazioni una copia del Manifesto di Ventotene (di cui ricorre nel 2021 l’ottantesimo anniversario) che esiste non solo nelle ventiquattro lingue ufficiali dell’Unione europea ma anche in arabo e che potrebbe essere facilmente tradotto in cinese, russo, giapponese, turco e nelle principali lingue africane sottolineando che il rilancio del multilateralismo suppone una battaglia senza quartiere al principio della sovranità assoluta, una riflessione sulla crisi della civiltà contemporanea su cui si basa la parte iniziale del Manifesto e un riconoscimento del fatto che la Federazione europea è l’unica garanzia di una pacifica cooperazione “in attesa di un più lontano avvenire in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”.

PIER VIRGILIO DASTOLI

Filadelfia di Calabria, 1° dicembre 2020

 

G20: nobody left behind - The teaching coming from the Manifesto of Ventotene

 

 

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Angelo Panebianco («le inutili baruffe europee del dopo Trump» Il Corriere della Sera, 23 novembre 2020) ha ridotto le idee che circolano in Europa a solo due ipotesi allo scopo di dimostrare che l’obiettivo di un’Europa più coesa (o, se l’aggettivo non è considerato troppo volgare, federale) è impossibile da raggiungere.

La prima idea (la sua) è che l’Europa - privata della tutela americana - farebbe fatica a camminare.

La seconda idea è di chi pensa che l’Europa - senza l’ingombrante presenza degli USA - se la caverebbe benissimo da sola.

C’è una terza idea che Panebianco volutamente ignora per legittimare il suo (euro-)scetticismo ed appartiene a chi pensa ad una equal partnership fra gli Stati Uniti e l’Unione europea, un obiettivo a cui aveva pensato JFK nel suo discorso sulla interdipendenza euro-americana del 4 luglio 1962 che presupponeva l’unità politica del continente.

Jo Biden, nel suo manifesto di politica estera pubblicato da Foreign Affairs nel marzo-aprile 2020 pensa a grandi coalizioni in un mondo multilaterale e una di queste o forse la più importante perché coesa nella difesa dell’ambiente e dello stato di diritto potrebbe essere proprio la equal partnership euro-americana.

In vista del sessantesimo anniversario della dichiarazione di interdipendenza di JFK una coalizione di innovatori (o federalisti) europei potrebbe elaborare un manifesto per proporre gli elementi di un progetto, di un metodo e di una agenda per una vera equal partnership euro-americana.

 

PIER VIRGILIO DASTOLI                          

Roma, 23 novembre 2020

 Risposta a Angelo Panebianco.pdf

 

 

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