Newsletter 5 Febbaio/2024 - EUROPA DEI DIRITTI

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La Corte di giustizia e la tutela delle donne vittime di violenza attraverso la direttiva sui rifugiati e la protezione internazionale: il diritto europeo si integra con il diritto internazionale

La Corte di giustizia il 16 gennaio 2024 ( WS, C-621/2021 ) nella sua formazione più autorevole della Grande sezione ha emesso una decisione davvero notevole su una questione mai affrontata in precedenza e piuttosto spinosa in punto di diritto raggiungendo risultati garantisti importanti in favore delle donne minacciate da atti di violenza fisica o mentale di natura  domestica a causa delle loro libere scelte di vita.

Molto sinteticamente la questione è questa: è applicabile la direttiva 2011/95/UE che mira ad “ assicurare che gli stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale ed ad assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli stati membri” anche a casi di donne minacciate gravemente dalla famiglia dell’ex marito al fine del riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria?  E che ruolo giocano le Convenzioni internazionali in gioco ed anche le linee guida ONU in materia nell’interpretazione della citata direttiva?

Il caso venuto in esame avanti il supremo organo giurisdizionale dell’Unione è questo: una cittadina di origine  curda, di confessione musulmana e divorziata, che sostiene di essere stata costretta a sposarsi dalla sua famiglia e poi picchiata e  minacciata dal marito, temendo per la propria vita se fosse dovuta tornare in Turchia, ha presentato una domanda di protezione internazionale in Bulgaria, rigettata dagli organi amministrativi, cui è seguita l’ordinanza di rinvio pregiudiziale del Giudice ordinario di quel paese. Quest’ultimo chiede se le norme in astratto applicabili della direttiva vadano interpretate in coerenza della Convenzione di Ginevra, della Convenzione sull’’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (d’ora in poi CEDAW) del 1979 e della Convenzione di Istanbul dell11.5.2011, firmata nel 2017 dall’Unione europea  ai fini della concessione della status di rifugiato ex art. 10 della direttiva  o in subordine della protezione sussidiaria in caso di minacce di morte o di trattamenti inumani e degradanti.

Il punto di partenza è la formulazione letterale dell’art. 10 della direttiva che richiama nella qualificazione del “rifugiato” la Convenzione di Ginevra nel senso che “per rifugiato si deve intendere il cittadino di un paese terzo il quale, per timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di detto paese”. Non essendo la condizione femminile specificata espressamente  tra i motivi della persecuzione all’art. 10 la protezione deriverebbe solo dalla possibilità che l’esser donna rientri nella nozione di appartenenza ad “ un determinato gruppo sociale “ (interpretazione negata in via amministrativa in Bulgaria ed oggetto di dubbio da parte del Giudici di questo stato). Va aggiunto che l’art. 10 della direttiva aggiunge che si considera che un “gruppo costituisce un particolare gruppo sociale in particolare quando: i membri di tale gruppo condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, e  tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante”.

Su questo delicatissimo punto la Corte di giustizia si destreggia con la maestria che conosciamo valorizzando i collegamenti tra la disciplina dell’Unione e le Convenzioni internazionali. E’ infatti evidente che le donne rappresentano più della metà del genere umano e, come dice il femminismo radicale della “ differenza”,  una radice dinamica ed evolutiva costitutiva di questo che non può essere assimilata  ad un mero gruppo, ad alcuna minoranza o componente  della società. D’altra parte questo approccio anche meramente letterale all’interpretazione della norma porterebbe ad escludere dalla protezione internazionale tutte le donne che vengono minacciate a causa proprio dell’esser donne in paesi ove i pregiudizi, soprattutto di carattere religioso  o tradizionale, negano (talvolta anche legalmente) e calpestano i diritti fondamentali  delle donne,  proprio a causa della loro appartenenza di genere.

Per questo si impone una interpretazione dell’art. 10 alla luce delle Convenzioni internazionali (CESAW e Istanbul  la seconda sottoscritta dall’Unione) come del resto suggerito dal considerando n. 30 della stessa direttiva che afferma che “ per la definizione di un determinato gruppo sociale occorre tener conto degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale, che possono essere legati a determinate tradizioni giuridiche e consuetudini… nella misura in cui sono correlati al timore del richiedente di subire persecuzioni”. 

La Corte sviluppa un sofisticato insieme di rimandi alla Convenzione di Ginevra ed alle due Convenzioni e persino delle linee guida dell’UNHCR  che la portano alla ragionevole conseguenza che si possa considerare gruppo sociale quello composto da donne laddove queste risultino gravemente  minacciate  a causa della loro condizione (una caratteristica innata  ed una storia comune irrifiutabile) in alcuni paesi in virtù di leggi, prassi e pregiudizi imperanti.

Queste le affermazioni nella parte cruciale della decisione (punti 57-61):  

“una discriminazione o una persecuzione subita da persone che condividono una caratteristica comune può costituire un fattore pertinente quando, al fine di verificare se sia soddisfatta la seconda condizione di identificazione di un gruppo sociale prevista all’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95, si deve valutare se il gruppo di cui trattasi risulti distinto alla luce delle norme sociali, morali o giuridiche del paese d’origine di cui trattasi. Tale interpretazione è corroborata dal punto 14 delle linee guida dell’UNHCR in materia di protezione internazionale n. 2, relative alla «appartenenza ad un determinato gruppo sociale» ai sensi dell’articolo 1, sezione A, punto 2, della Convenzione di Ginevra;

      Di conseguenza, le donne, nel loro insieme, possono essere considerate come appartenenti a un «determinato gruppo sociale», ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95, qualora sia accertato che, nel loro paese d’origine, esse sono, a causa del loro sesso, esposte a violenze fisiche o mentali, incluse violenze sessuali e violenze domestiche;

   Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 79 delle sue conclusioni, le donne che rifiutano un matrimonio forzato, allorquando una tale prassi può essere considerata una norma sociale all’interno della loro società, o trasgrediscono una siffatta norma ponendo fine a tale matrimonio, possono essere considerate appartenenti a un gruppo sociale con un’identità distinta nel loro paese d’origine, se, a causa di tali comportamenti, esse sono stigmatizzate ed esposte alla riprovazione della società circostante che porta alla loro esclusione sociale o ad atti di violenza;

   In quinto luogo, ai fini della valutazione di una domanda di protezione internazionale basata sull’appartenenza a un determinato gruppo sociale, spetta allo Stato membro interessato verificare se la persona che invoca tale motivo di persecuzione abbia «il timore fondato» di essere perseguitata, nel suo paese d’origine, a motivo di tale appartenenza, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95;

    Al riguardo, conformemente all’articolo 4, paragrafo 3, di tale direttiva, la valutazione della fondatezza del timore di un richiedente di essere perseguitato deve avere carattere individuale ed essere effettuata caso per caso con vigilanza e prudenza, fondandosi unicamente su una valutazione concreta dei fatti e delle circostanze conformemente alle disposizioni enunciate, non solo in tale paragrafo 3, ma anche al paragrafo 4 di tale articolo, al fine di determinare se i fatti e le circostanze accertati costituiscano una minaccia tale da far fondatamente temere alla persona interessata, alla luce della sua situazione individuale, di essere effettivamente vittima di atti di persecuzione qualora dovesse tornare nel suo paese d’origine;

    A tal fine, come indicato al punto 36, lettera x), delle linee guida dell’UNHCR sulla protezione internazionale n. 1, dovrebbero essere raccolte le informazioni relative al paese d’origine rilevanti per la valutazione delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato presentate dalle donne, quali la posizione delle donne davanti alla legge, i loro diritti politici, sociali ed economici, i costumi culturali e sociali del paese e le conseguenze nel caso non vi aderiscano, la frequenza di pratiche tradizionali dannose, l’incidenza e le forme di violenza segnalate contro le donne, la protezione disponibile per loro, la pena imposta agli autori della violenza e i rischi che una donna potrebbe dover affrontare al suo ritorno nel paese d’origine dopo aver inoltrato una siffatta domanda”.

Non si tratta solo di affermazioni astratte in punta di diritto ma anche della precisa ed esauriente indicazione ai giudici ordinari nazionali delle verifiche da effettuare onde dare concretezza alle garanzie fissate nella direttiva.

Ancora  la Corte ha stabilito che l’accesso alla protezione internazionale spetta anche se le minacce provengono da soggetti non statali laddove si provi l’insufficienza della protezione offerta dalla autorità statali del paese di appartenenza anche se non è necessario stabilire una correlazione diretta tra motivi della persecuzione e i motivi di rifiuto di protezione pubblica interna.

Infine, laddove non sussistessero le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, sarebbe comunque possibile ottenere la protezione sussidiaria se si giunge a documentare la minaccia di un “danno grave” che “ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, e che tale nozione può quindi condurre al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria..”, che  anche in questo caso viene interpretata in senso estensivo alla luce delle Convenzioni internazionali.

In conclusione si tratta di una luminosa sentenza in una materia così difficile, nella presente fase, come quella della protezione internazionale che consente all’Unione europea di offrire una risposta ai maltrattamenti subiti dalle donne in molti paesi, soprattutto africani, all’altezza dei suoi valori di libertà, dignità e di emancipazione sociale valorizzando  a pieno le norme internazionali (questa volta non sono state chiamate in gioco le disposizioni della Carta dei diritti)  le quali acquisiscono così sul territorio europeo un’effettività ed una cogenza particolare. 

La sentenza ribadisce, poi, i compiti “ attivi” dei giudici ordinari nazionali nel dare attuazione al diritto dell’Unione che non possono limitarsi a fare da passacarte ma devono essere parti diligenti  nell’approntare verifiche effettive e serie  sulle allegazioni dei richiedenti la protezione internazionale  e non possono  rifiutare le domande, senza approfondire sul piano istruttorio, in  base alla  mera  mancanza di prova su quanto dedotto dai richiedenti che non sono ovviamente sempre in grado di documentare i rischi che corrono.  

L’Europa è terra di accoglienza per le donne che sono perseguitate per avere praticato la loro libertà: una risposta sul terreno del diritto, ci pare, anche alla prima rivoluzione femminile della storia, quella che si sta sviluppando in Iran, nonostante la brutale repressione.

Giuseppe Bronzini

Segretario generale Movimento europeo