Newsletter 20 Settembre/2021 - L'EDITORIALE

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AL DI LA DELLA VOLONTA’ POLITICA

Nel suo discorso sullo “stato dell’Unione” Ursula von der Leyen ha giustamente sottolineato che – in materia di politica estera (ma non solo, n.d.r.) – la soluzione per fare dell’Unione un soggetto capace di agire non sta o non sta esclusivamente nell’abolizione del metodo del voto all’unanimità e quindi del diritto di veto che consente ad uno Stato membro o una minoranza “qualificata” di paralizzare una decisione necessaria per realizzare uno degli obiettivi dell’Unione europea.

Chi conosce il funzionamento delle istituzioni europee sa che gli archivi dell’Unione sono pieni di proposte della Commissione fondate sulla procedura legislativa ordinaria e dunque sul voto a maggioranza nel Consiglio che non si sono tradotte in regolamenti o direttive perché il Trattato (art. 294 TFUE) non impone al Consiglio l’obbligo di adottare la sua posizione in prima lettura entro un termine di tempo determinato dopo il voto del Parlamento europeo.

Per questa ragione, ad esempio, il cosiddetto Migration Pact destinato a modificare il Regolamento di Dublino è ancora bloccato sul tavolo del Consiglio così come lo era la precedente proposta della Commissione Juncker nonostante il fatto che il Parlamento europeo abbia già deliberato con propri emendamenti legislativi.

Per evitare i rischi della paralisi di decisione fra i governi, il progetto Spinelli del 1984 (art. 76) aveva previsto che, dopo il voto del Parlamento europeo, il Consiglio avrebbe dovuto decidere in un termine di tempo perentorio di sei mesi trascorso il quale sarebbe entrato in vigore il testo adottato dall’assemblea.

Appare molto discutibile invece l’idea di Ursula von der Leyen secondo cui la paralisi dell’Unione europea in materia di politica estera e di difesa – e dunque di una parte importante della sua autonomia strategica – sia dovuta alla mancanza di volontà politica dei governi e non alla capacità decisionale delle istituzioni europee.

Noi siamo convinti da tempo che ci sono settori essenziali per la vita dell’Unione e cioè per la realizzazione di quegli obiettivi che le sono stati assegnati nell’articolo 3 del Trattato di Lisbona che richiedono una capacità di governo sovranazionale dotato di poteri certo limitati (perché non vogliamo fondare un Super-Stato o uno stato centralizzato) ma reali sottoposti al controllo costante dell’autorità legislativa.

Nelle nostre democrazie la volontà politica è il frutto di un processo complesso fondato su un delicato equilibrio di poteri e non solo sulla base di una generale o generica espressione di un orientamento da parte dei governi che siedono all’interno del Consiglio europeo o del Consiglio.

Se noi analizziamo ad esempio gli “intenti” della Commissione per il 2022 a cui aggiungiamo quelli – in parte inattuati – del 2020 e del 2021 e li arricchiamo con gli annunci fatti nel discorso sullo “stato dell’Unione” in materia di politica della salute, di dimensione sociale legata al cambiamento climatico e di disoccupazione giovanile per non parlare dell’idea di rendere permanente il Piano per la Ripresa europea, ci rendiamo conto che non basterebbe un atto di volontà politica del Consiglio europeo per tradurli in atti dell’Unione europea.

Se si chiede all’Unione europea di agire nella ricerca sanitaria per lottare contro future epidemie o pandemie o di assumere una funzione di leadership nel settore dell’energia o garantire la sua autonomia strategica nel settore dell’intelligenza artificiale gettando le basi di una – per ora inesistente – politica industriale europea di cui fa parte anche la difesa bisogna dotarla e dotare le sue istituzioni della capacità di agire.

Ciò vuol dire trasferire dal livello nazionale al livello europeo delle competenze che sono ora solo di sostegno agli Stati o confusamente condivise fra essi e l’Unione creando delle competenze esclusive come sono oggi la politica commerciale o la moneta o la concorrenza attribuendo alla Commissione il potere di agire oppure chiarire la ripartizione fra competenze condivise e di sostegno.

Ciò vuol dire cambiare i trattati, un tema su cui la Commissione ha espresso finora non degli intenti ma solo delle buone intenzioni come appare in modo evidente nel settore essenziale del bilancio e delle risorse proprie.

Qua e là, la richiesta di cambiare i trattati appare fra le idee e fra le aspettative dei cittadini nella piattaforma digitale della Conferenza sul futuro dell’Europa, è emersa nell’ultimo Eurobarometro ed è stata rivendicata nel primo panel a Strasburgo dei cittadini europei.

Ascoltiamo la loro voce.

 

coccodrillo