Newsletter 7 Febbraio/2022 - IN EVIDENZA

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I chiari e gli scuri del Trattato di Maastricht

Il Trattato che istituì l’Unione europea lasciandosi alle spalle i trattati di Roma del 1957 e l’Atto Unico europeo del 1986 fu firmato nel Centro Congressi della città olandese di Maastricht - al confine con la Germania unificata, il Belgio e la Francia - il 7 febbraio 1992 dai capi di Stato e di governo di dodici paesi europei sulla base di un difficile compromesso intergovernativo raggiunto nella notte fra il 10 e l’11 dicembre 1991 dopo un anno di negoziati iniziati a Roma nel dicembre 1990.

Quei negoziati riguardavano teoricamente due Conferenze intergovernative (CIG) sull’Unione economica e monetaria (UEM) e sull’Unione politica (UP) e furono precedute a Montecitorio da una settimana di “assise interparlamentari sul futuro dell’Europa” promosse dal Parlamento europeo, dal Parlamento belga e dal Parlamento italiano dove non parteciparono i governi che decisero di escludere sia il Parlamento europeo che la società civile riducendo il dialogo con i parlamentari europei all’interno di  formali conferenze interistituzionali parallele (CIP) che lasciarono inalterato il controllo diplomatico sui negoziati anche se il passaggio dalla semplice cooperazione legislativa nell’Atto Unico alla codecisione in Maastricht fu significativo come furono significativi l’ampliamento delle aree di decisione del Consiglio a maggioranza qualificata e l’introduzione della cittadinanza europea.

L’idea di un nuovo trattato era nata nel 1988 nella convinzione che non ci poteva essere mercato unico senza moneta unica a cui si era aggiunta nel 1989 la consapevolezza che serviva una unione politica per rispondere alla fine dell’imperialismo sovietico e alla prospettiva di accogliere nelle Comunità europee i paesi dell’Europa centrale che si preparavano a conquistare o riconquistare la democrazia secondo un modello liberale.

Come sanno gli studiosi dell’integrazione europea il nuovo trattato rischiò di impantanarsi nelle ratifiche nazionali in piccola parte per il “nej” nel referendum danese ma soprattutto per le molte reticenze dell’opinione pubblica francese che si espresse con una esigua maggioranza con un “oui” nel referendum convocato da François Mitterrand.

Lo stesso Mitterrand aveva cercato di sormontare il “nej” danese proponendo agli altri governi di uscire tutti insieme dalle Comunità europee e di firmare il Trattato di Maastricht come un accordo internazionale lasciando da solo il Regno di Danimarca nei trattati comunitari ma dovette abbandonare la sua idea per l’opposizione britannica condivisa silenziosamente dagli altri governi che non volevano separarsi dal Regno Unito.

Tutto quello che è avvenuto in questi trenta anni ha progressivamente messo a nudo i difetti del Trattato di Maastricht a cominciare dalla mancanza di un calendario vincolante per la realizzazione dell’Unione politica nell’illusoria convinzione che il processo di integrazione europea viaggiasse su un teorico piano inclinato che ci avrebbe condotto dalla moneta unica alla federazione europea.
Così non è avvenuto ed anzi con il Trattato di Lisbona il piano si è inclinato verso il modello intergovernativo o confederale.

La lista dei “left over” del Trattato di Maastricht è molto lunga e per anni abbiamo pagato le conseguenze del compromesso raggiunto fra i dodici governi con la connivenza della Commissione europea presieduta dal francese Jacques Delors.

Non c’erano nel trattato gli elementi essenziali per affiancare o meglio per sovrapporre all’Unione monetaria una vera Unione politica che era apparsa indispensabile per consentire l’ingresso dei paesi dell’Europa centrale nel sistema comunitario senza squilibrarlo.

Non c’erano nel rapporto sulla moneta unica le condizioni per evitare quella che Carlo Azeglio Ciampi aveva definito la “zoppia” dell’Unione economica e monetaria.

Non c’era una visione unitaria del processo di integrazione europea frammentato in tre pilastri (quello comunitario, quello della politica estera e quello della sicurezza interna) all’interno di un sistema che Giulio Andreotti definì sarcasticamente “un tempio bizantino”.

Non c’erano infine gli strumenti per combattere le diseguaglianze fra paesi, regioni e classi sociali perché la dimensione sociale fu relegata in un modesto protocollo allegato al trattato che il Regno Unito si rifiutò di firmare.

Roma, 7 febbraio 2022

Pier Virgilio Dastoli

 

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