Newsletter 2 Maggio/2022

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CARE LETTRICI E CARI LETTORI

La nostra newsletter settimanale Noi e il futuro dell'Europa è stata concepita per contribuire ad una corretta informazione sull’Unione europea e partecipare al dibattito sulla riforma dell’Unione a partire dalla Conferenza sul futuro dell’Europa.

Come sapete, la Conferenza è stata avviata il 9 maggio 2021 a Strasburgo e dovrebbe concludersi il 9 maggio 2022.

Ecco l’indice della nostra newsletter

- Editoriale, che esprime l’opinione del Movimento europeo su un tema di attualità

- Speciale guerra in Ucraina

- Ultime da Bruxelles

- Quale è la tua idea sul futuro dell'Europa ?

- Petizione per l'invio dei Caschi blu in Ucraina

- Eventi principali, sull’Europa in Italia e Testi in evidenza

- Agenda della settimana a cura del Movimento Europeo Internazionale

- L'ABC dell'Europa di Ventotene

- La Conferenza sul futuro dell'Europa

Siamo come sempre a vostra disposizione per migliorare il nostro servizio di comunicazione e di informazione e per aggiungere vostri eventi di interesse europeo nella speranza di poter contare su un vostro volontario contributo finanziario.

 

 


 L'EDITORIALE

DA HELSINKI-1 A HELSINKI-2

I segnali di un’invasione russa dell’Ucraina sono stati per più settimane inequivocabili fin dal dicembre 2021 e sarebbe stato difficile credere che lo schieramento dei tanki dell’armata di Vladimir Putin in Crimea e nelle regioni del Donetsk e di Lugansk oltre che sullo stretto di Kerc’ non preludesse ad una successiva aggressione militare. 

Nonostante questi segnali inequivocabili, la reazione delle Nazioni Unite, della Nato, dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e dell’Unione europea si è fermata sulla soglia dell’annuncio di indeterminate sanzioni incapaci di fermare l’aggressione come fu dimostrato dall’esperienza fallimentare dell’annessione russa della Crimea nell’inverno del 2014.

All’alba del 24 febbraio 2022, il Movimento europeo ha chiesto la cessazione immediata delle ostilità, l’applicazione bilaterale degli accordi di Minsk del 2014-2015 – mai rispettati da Russia e Ucraina – e l’avvio di un dialogo multilaterale simile a quello che portò fra il luglio 1973 e l’agosto 1975 alla sottoscrizione degli “accordi di Helsinki” e alla nascita il 1° gennaio 1995 come Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) a cui aderiscono oggi 57 Stati e 11 partner di cooperazione [1].

Sull’idea di una “Helsinki-2” è tornato il Presidente Sergio Mattarella nel suo discorso davanti alla Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 27 aprile 2022 sottolineando le differenze fra la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa come strumento di dialogo e la Conferenza di Jalta (in Crimea) nell’inverno del 1945 - dove i leader delle grandi potenze (Josip Stalin, Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill) presero accordi sull’assetto futuro della Polonia smembrata da Hitler e poi dall’URSS e sull’istituzione delle Nazioni Unite - e avvertendo che il dialogo non può essere una prova di forza fra Stati che invece “devono comprendere di essere sempre di meno grandi potenze”.

Sappiamo che la strada di una Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione (e aggiungiamo: sulla pace) in Europa è lastricata di ostacoli, resa impervia dalle spaventose distruzioni provocate da oltre due mesi di bombardamenti, dalle decine di migliaia di morti in particolare nella popolazione civile fra donne e bambini, dalle torture e dagli stupri, dai milioni di sfollati e di rifugiati in Ucraina, in Russia dove sono stati evacuati con la forza, nei paesi vicini dell’Europa così come impervia è la strada dell’invio di Caschi Blu che richiede una tregua temporanea e che saranno necessari se si arrivasse ad un compromesso sull’assetto futuro dell’Ucraina che da loro dovrebbe essere garantito.

Vale la pena di ricordare che la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, a cui parteciparono anche gli Stati Uniti e il Canada come membri della NATO e che si svolse principalmente a Ginevra presso la sede europea delle Nazioni Unite, fu il tentativo di ridurre le tensioni della guerra fredda fra l’URSS governata da Leonid Breznev - che cinque anni prima aveva invaso con i suoi tanki Praga e che quattro anni dopo gli accordi di Helsinki scatenò una guerra con l’Afghanistan – e il mondo occidentale essendo acclarato che una parte del pianeta con l’esclusione di quelli che furono poi i paesi non allineati era stato suddiviso a Jalta in quelle che si definivano pudicamente aree di influenza ma che di fatto erano il mondo comunista sotto l’imperialismo di Mosca e il mondo capitalista nel quadro dell’egemonia di Washington.

Vale anche la pena di ricordare che Mosca - oltre a controllare i paesi del COMECON e del Patto di Varsavia – si era annessa militarmente quattordici territori al di fuori della Russia di cui alcuni facevano parte dell’Impero Russo degli Zar fino al 1917 (l’Ucraina del Dnepr, la Bielorussia, l’Armenia, l’Azerbaijan, la Georgia e gran parte dei governatorati baltici) e che Washington aveva usato la sua forza egemonica per “evitare” – così fu giustificato il suo intervento – l’arrivo al potere dei comunisti in Grecia nel 1967 e in Cile nel 1973.

A Helsinki e a Ginevra si ritrovarono di fronte gli Stati Uniti di Richard Nixon (che abbandonò la presidenza nel 1974 per lo scandalo Watergate sostituito da Gerald Ford) e l’URSS di Leonid Breznev e che da parte europea i negoziati furono avviati per la Francia da George Pompidou ma conclusi soprattutto da Valery Giscard d’Estaing che aveva contribuito a far uscire le Comunità europee dall’impasse della crisi monetaria del 1971 e della guerra del Kippur nel 1973, da Willy Brandt e dalla Ostpolitik interrotta con le sue dimissioni da cancelliere nel 1974 per essere sostituito da Helmut Schimdt, dalla relativa equidistanza internazionale che forse pagò con la vita di Aldo Moro prima ministro degli esteri e poi capo del governo in Italia e dal Regno Unito appena entrato nelle Comunità europee e governato prima dal conservatore Edward Heath e poi dal laburista Harold Wilson.

Gli “accordi di Helsinki” – sintetizzati in un decalogo – furono sottoscritti da Belgio, Danimarca, Francia, Regno Unito, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Repubblica Federale Tedesca che facevano parte delle Comunità europee; da URSS, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, Ungheria che facevano parte del COMECON e poi da Stati Uniti, Austria, Canada, Cipro, Città del Vaticano, Finlandia, Grecia, Islanda, Jugoslavia, Liechtenstein, Malta, Norvegia, Portogallo, Monaco, San Marino, Spagna, Svezia, Svizzera e Turchia.

Nel corso delle riunioni della seconda fase a Ginevra furono presentati contributi dall’Algeria, dall’Egitto, da Israele, dal Marocco, dalla Siria e dalla Tunisia con una iniziativa che fu foriera dell’idea lanciata nel 1993 da Gianni De Michelis – purtroppo mai realizzata -  di una Conferenza per la Sicurezza e per la Cooperazione nel Mediterraneo da cui nacque nel 1995 il più modesto Partenariato Euro-Mediterraneo che abortì nella “sarkoziana” Unione per il Mediterraneo del 2008, un’idea che sarebbe necessario e urgente rilanciare nel quadro dell’autonomia strategica dell’Unione europea.  

Dei tre cosiddetti “basket” di Helsinki – secondo la definizione dei negoziatori svizzeri – il primo  relativo alla “sicurezza in Europa” e che comprendeva in particolare l’inviolabilità delle frontiere e l’integrità territoriale degli Stati insieme al non intervento negli affari interni fu considerato dagli osservatori come un risultato favorevole agli interessi dell’imperialismo sovietico che si opponeva all’idea di mettere in discussione la sua area  di influenza in cui si era raggiunto un accordo sull’assetto territoriale europeo a Jalta.

Gli altri due “basket” sulla cooperazione nei campi dell’economia, della scienza, della tecnica e dell’ambiente da una parte e del settore umanitario dall’altro furono considerati dagli europei come forieri di sviluppi positivi nel tempo anche attraverso la creazione della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Quel che sta avvenendo nella guerra provocata dall’aggressione della Russia all’Ucraina e la escalation militare di cui ha dato una dimostrazione inequivoca degli interessi di Washington nel conflitto la cosiddetta “dottrina Austin” a Ramstein del segretario alla difesa ed ex-generale USA Lloyd James Austin indica con chiarezza che gli interessi europei sull’assetto del continente sono perlomeno complementari rispetto a quelli dell’alleato statunitense, che “prospettare una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità ad un quadro di sicurezza e di cooperazione (sul continente, n.d.r.) sull’esempio della Conferenza di Helsinki del 1975” – come ha affermato il capo dello Stato Mattarella a Strasburgo – è responsabilità primaria dell’Unione europea e della sua “autonomia strategica” a monte della sua “bussola (militare) strategica” e nel quadro di un’unica politica estera e della sicurezza di cui può fa parte a valle una difesa comune.

Di questo si dovrà parlare al Consiglio europeo straordinario del 30-31 maggio e con una posizione unitaria - o almeno di un gruppo di paesi che condividono l’obiettivo di una cooperazione (politica) strutturata - i paesi europei che fanno parte della NATO dovranno presentarsi al Vertice dell’Alleanza Atlantica che si riunirà a Madrid il 29 e 30 giugno.

Ci attendiamo che l’indicazione degli elementi di una maggiore autonomia e sovranità strategica dell’Unione europea nei settori della difesa con una vero coordinamento nell’azione degli eserciti, delle forze aeronautiche e navali nonché nelle spese militari, nel controllo della vendita degli armamenti ai paesi terzi e nella cybersicurezza; dell’energia; della sicurezza alimentare e della politica industriale emergano con chiarezza nel dialogo che avrà il Presidente Mario Draghi al Parlamento europeo il 3 maggio e poi nelle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa a Strasburgo il 9 maggio perché le proposte prospettate dalle cittadine, dai cittadini e dal Parlamento europeo vanno in questa direzione e devono aprire la strada ad un cambiamento di rotta il cui porto dovrà essere la realizzazione – fra i popoli e i paesi che lo vorranno – degli Stati Uniti d’Europa sulla base di un processo costituente che dovrà essere avviato dopo le elezioni europee del 26 maggio 2024.

coccodrillo

 

 

 

[1] Albania, Andorra, Armenia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Canada, Cipro, Città del Vaticano, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Lichtenstein, Lussemburgo, Macedonia del Nord, Malta, Moldavia, Monaco, Mongolia, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Russia, San Marino, Serbia, Slovacchia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Tagikistan, Turchia, Turkmenistan, Ucraina, Ungheria, Uzbekistan e come partner per la cooperazione Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Marocco, Tunisia, Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Afghanistan, Australia.

 

 


SPECIALE GUERRA IN UCRAINA

 

 


ULTIME DA BRUXELLES

Un fulmine a ciel sereno o era prevedibile prima?

La pandemia e l’aggressione della Russia all’ Ucraina hanno evidenziato una realtà che per molto tempo e per diversi motivi sembrava essere stata ignorata da tutti i paesi occidentali: la dipendenza dell’Unione da paesi terzi per materie prime, beni e servizi necessari per il suo sviluppo economico sociale e la sua autonomia economica.  

La globalizzazione e i maggiori guadagni che quest’ultima ha fatto intravedere, hanno spinto il mondo economico verso mercati più convenienti in paesi in cui di fatto si possono aggirate le regole di cui faticosamente l’Unione si sta ancora dotando per la tutela dell’ambiente, della salute, dei lavoratori, ecc . Ovvero verso paesi che offrono risorse necessarie allo sviluppo economico (per es. risorse energetiche) a prezzi decisamente più vantaggiosi, ma che operano sulla base di principi e di uno stato di diritto molto distante da quello europeo.

Produrre in paesi extra europei, spesso risulta conveniente: i costi di produzione sono più bassi a discapito della tutela dei lavoratori e/o della qualità e pertanto si possono realizzare maggiori profitti.

Il fenomeno ben noto da diversi anni, è stato forse non ben ponderato nelle conseguenze che poteva innescare anche a livello politico, ma anzi è stato generalmente valutato in modo positivo malgrado i disequilibri che ha creato non solo in termini di inquinamento globale, ma anche di tensioni sociali proprio in quei paesi le cui imprese operavano delocalizzando. Con il trasferimento della produzione, infatti, in questi paesi è decisamente aumentata la disoccupazione, quindi è diminuita la domanda interna, quindi il PIL, e quindi il benessere sociale. Inoltre, la delocalizzazione ha permesso di poter godere di una più leggera imposizione fiscale sui redditi prodotti in paesi con regimi più favorevoli, con tutte le conseguenze che questo comportava in termini di competitività tra imprese. Non da ultimo, la dipendenza per l’approvvigionamento di materie prime da paesi autoritari che sicuramente non operano secondo i nostri criteri e valori. Questo sta causando - come hanno messo in luce sia la pandemia e sia l’aggressione della Russia all’Ucraina - notevoli criticità nell’approvvigionamento di quei beni e servizi essenziali alla produzione nazionale ed europea e quindi alla sostenibilità dell’economia.

Si può affermare pertanto che queste due crisi hanno di fatto provocato un brusco risveglio per l’Europa, che improvvisamente si vede obbligata entro tempi brevissimi a ripensare al suo modello di sviluppo, partendo proprio da un riorganizzazione immediata delle sue fonti di approvvigionamento energetico, alimentare, di prodotti strategici, ecc .

Di questa improrogabile urgenza se ne parla da tempo a livello UE. La Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ad esempio nel discorso sullo stato dell’Unione del 2021, (2021 Strategic Foresight Report) intervenendo sulla ripresa economica post pandemia, si è soffermata sulle sfide che l’Unione dovrà affrontare in settori quali il commercio internazionale e in particolare le catene di valore dove si evidenziano le principali fragilità europee. La Presidente ha sottolineato che è necessario rendere l’Unione resiliente proprio in quei settori, considerati strategici per poter competere con i principali concorrenti mondiali, Cina e USA, e poter affrontare più serenamente future ed inevitabili crisi non solo pandemiche.

Tra i principali temi  di policy da affrontare per poter realizzare questo obiettivo vi sono sicuramente i cambiamenti climatici, che hanno impatto anche sulla geografia dell’agricoltura e minacciano la sicurezza alimentare, oltre che creare pressione sulla migrazione da paesi poveri; il settore digitale ormai imprescindibile quando si parla di sviluppo ed innovazione, ma dove l’UE registra notevoli ritardi rispetto a USA e Cina; il settore dell’approvvigionamento energetico dove occorre sostituire prodotti che causano emissioni di CO2 dannose all’ambiente con energie pulite, rinnovabili, ottenendo così il  doppio vantaggio di contribuire alla diminuzione del surriscaldamento del pianeta rispettando gli impegni presi a livello multilaterale e quello di rendere l’Unione autonoma rispetto a paesi terzi.  

In molti settori, considerati vitali all’economia e alla resilienza dell’Unione, quest’ultima è attualmente dipendente da paesi terzi come nel settore energetico (da Russia), nel settore di servizi cloud (totalmente in mano a fornitori non-UE con legislazioni diverse da quella europea e quindi con possibili problemi di cyber security), nel settore agroalimentare (da Ucraina), in quello dei prodotti/terre rare necessarie per lo sviluppo tecnologico (da Cina).

Il rischio politico che questa situazione può creare è intuibile, quello economico è sotto gli occhi di tutti.

Il Governo italiano sta cercando di trovare soluzioni immediate almeno al più urgente dei problemi quello dell’approvvigionamento energetico, diversificando almeno i paesi con cui sottoscrivere nuovi accordi di acquisto di gas da sostituire a quelli in essere con la Russia, anche se i nuovi produttori non offrono quella sicurezza in termini di valori e principi propri dell’Unione. Mi riferisco all’Algeria, alla Libia, all’Egitto… tutti regimi ‘discutibili’, ad esempio, in tema di rispetto di diritti umani e sicuramente con situazioni politiche interne non proprio tranquille.

Del resto, anche lo stesso segretario di stato americano al Tesoro, Janet Yellen, ha dichiarato che per motivi di sicurezza è il momento non solo di ri-localizzare molte produzioni in paesi ’amici ‘ con gli stessi valori, i c.d. friend-shoring, ma anche di ridurre la dipendenza negli approvvigionamenti e nella produzione da paesi autoritari. E’ quindi un problema dell’occidente ridurre questa corsa sfrenata senza briglie all’off-shoring.

Purtroppo, ammesso che si potrà realizzare in tempi il più possibile ridotti, non sarà affatto indolore per tutto l’occidente. Aumenteranno i costi di produzione (costi del lavoro, protezione sociale, energia, tassazione ecc ) con riflessi sui prezzi dei prodotti finiti e quindi sull’inflazione. Non tutte le imprese sapranno sostenere queste rivoluzioni strutturali e quindi i governi europei dovranno mettere immediatamente in campo una strategia di sostegno alle imprese, finalizzata magari anche ad una ripresa dell’occupazione. Lasciare la governance di questo cambio esclusivamente al mercato potrebbe in un contesto quale l’attuale (con un impatto negativo delle sanzioni alla Russia sull’economia europea) creare feriti e …morti tra le imprese e quindi sull’occupazione, assolutamente da evitare.

Non sempre il mercato agisce secondo regole di sostegno sociale, che possono essere raggiunte in un secondo momento per aggiustamenti automatici ma non indolori e comunque sicuramente non nel breve tempo. Questa situazione potrebbe inoltre dar voce ad un rafforzamento dei movimenti antieuropeisti proprio a ridosso delle elezioni europee del 2023, dove sicuramente oltre al sostegno finanziario fornito per contrastare gli effetti della pandemia, l’Europa deve dar prova di saper affrontare un prossimo periodo sicuramente difficile sul piano macroeconomico anche a causa delle conseguenze dell’aggressione in atto.

E’ auspicabile quindi, già a partire del semestre europeo in corso, una maggior flessibilità da parte degli Stati rigoristi europei che almeno difronte a questa crisi dovuta ad una situazione molto critica ‘in Europa’, che rischia di travolgere non solo l’economia e la finanza ma anche i nostri valori, sappiano astenersi da qualsiasi posizione rigida ed intransigente. Per dirla con Keynes, per contrastare una crisi economica e finanziaria, occorre intervenire prima che la situazione sfugga di mano. Le grandi depressioni economiche sono l’incubatore di regimi e di personaggi che abbiamo già avuto modo di conoscere nel passato. La storia può ripetersi, ma sta a noi evitarlo. E’ quello che ci auguriamo che l’Europa sappia fare già dalle prossime riunioni del Consiglio europeo e dalle prossime riunioni dei Ministri di settore.

 

Annamaria Villa

 

 


QUALE È LA TUA IDEA SUL FUTURO DELL’EUROPA ?

Lo abbiamo chiesto ai nuovi membri del Consiglio di Presidenza del Movimento europeo Italia, eletti lo scorso 6 aprile a Roma:

 

 


PETIZIONE PER L'INVIO DEI CASCHI BLU IN UCRAINA

Petizione per l’invio di Forze internazionali di interposizione in Ucraina

affinché tacciano le armi e si avvii un negoziato sulla pace e la sicurezza

Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha finalmente chiesto un immediato e temporaneo “cessate il fuoco” in Ucraina dopo sessanta giorni in cui hanno parlato solo le armi.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha già approvato nel 1950 la Risoluzione 377A (Uniting for peace) che autorizza la stessa Assemblea Generale a adottare – a maggioranza qualificata – le misure di peace keeping. Su questa base, quindi, sia i paesi membri dell’Unione Europea che gli Stati che si sono astenuti sulle risoluzioni di condanna della Russia potrebbero chiedere la convocazione di una nuova Assemblea Generale Straordinaria che sostenga l’urgenza di una tregua immediata e che autorizzi l’invio in Ucraina delle Forze Internazionali di pace per garantirla.  

I promotori della petizione sollecitano l’attivazione dello Statuto delle Nazioni Unite, in particolare il suo Capitolo VII che autorizza l’Assemblea Generale a decidere misure di peace keeping per il tramite delle “Forze internazionali di pace” (i cosiddetti Caschi Blu) costituite in base al documento “United Nations Peacekeeping Operations: Principles and Guidelines” affinché sia garantito il rispetto del “cessate il fuoco”.

Fra i diritti essenziali o meglio come fondamento dei diritti essenziali la Carta delle Nazioni Unite del 1945, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e il Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966 hanno posto nei rispettivi preamboli il principio della dignità umana.

Fra i crimini che l’armata russa sta compiendo e si prepara a perpetuare in Ucraina vi è il disprezzo della dignità umana su donne, minori e uomini, su tutta la popolazione civile.

La comunità internazionale e con essa l’OSCE e l’Unione europea non sono stati in grado, pur avendone la consapevolezza ed i mezzi, di prevedere la guerra scatenata senza giustificazione alcuna dalla Russia contro l’Ucraina e di far interrompere le operazioni militari.

L’UNICA STRADA A TALE PUNTO PERCORRIBILE APPARE L’INVIO IN UCRAINA - SU DECISIONE A MAGGIORANZA QUALIFICATA DELL’ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE DELLE FORZE DI INTERPOSIZIONE (I CASCHI BLU) PREVISTE PER GARANTIRE LE OPERAZIONI DI PEACE KEEPING LA CUI MISSIONE – È BENE RICORDARLO - NON È OFFENSIVA MA È NECESSARIA PER GARANTIRE IL RISPETTO DELLA DECISIONE DI FAR TACERE LE ARMI.

La gravità eccezionale di quel che sta avvenendo dal 24 febbraio in Ucraina e il rifiuto di Vladimir Putin, in primo luogo, di accettare l’avvio di un vero negoziato di pace esige ormai l’uso di strumenti eccezionali. Si tratta di una strada evidentemente difficile, ma l’immane tragedia umanitaria deve spingere la comunità internazionale a tentare di intraprendere anche le strade più impervie e con l’occasione dimostrare al mondo l’immagine che l’ONU è una Istituzione creata a garanzia della giustizia e della libertà dei popoli. 

 

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Petition for the deployment of International Intervention Forces in Ukraine

to lay down arms and let negotiations on peace and security begin

The Secretary-General of the United Nations, Antonio Guterres, has finally called for an immediate and temporary "ceasefire" in Ukraine after sixty days of armed violence.

The General Assembly of the United Nations already approved Resolution 377a (Uniting for peace) in 1950, which authorizes the General Assembly to adopt – by qualified majority – the measures of peace keeping. Therefore, both the member countries of the European Union and the States that abstained on the resolutions condemning Russia could request the convening of a new Extraordinary General Assembly. Said Assembly could support the urgency of an immediate truce and authorize sending International Peace Forces to Ukraine to guarantee it.

The signatories of this petition urge the activation of the United Nations Statute, in particular its Chapter VII which authorizes the General Assembly to decide on peace keeping measures through the "International Peace Forces" (the so-called Blue Helmets) established since the document "United Nations Peacekeeping Operations: Principles and Guidelines" to ensure compliance with the "ceasefire".

Among the essential rights, or as the basis of essential rights, the Charter of the United Nations of 1945, the Universal Declaration of Human Rights of 1948 and the United Nations Covenants on Civil, Political, Economic, Social and Cultural Rights of 1966 have placed the principle of human dignity, mentioned in their respective preambles.

The contempt for human dignity regarding women, minors, men, and the whole civilian population, is just one of the heinous crimes committed by the Russian army. Content could reach its peak if the Moscow autocrat decided to parade the Ukrainian prisoners, humiliating them as the Soviets did on the Red Square in 1945 with the prisoners of the Third Reich.

The international community, mainly the OSCE and the European Union – while having the awareness and the means - have not been able to foresee the war unleashed by Russia against Ukraine without any justification and to bring military operations to a halt.

THE ONLY WAY FORWARD AT THIS POINT APPEARS TO BE THE DISPATCH TO UKRAINE OF INTERNATIONAL INTERPOSITION FORCES (THE BLUE HELMETS) TO GUARANTEE THE PEACE KEEPING OPERATIONS. THEIR MISSION – IT SHOULD BE REMINDED - IS NOT OFFENSIVE, BUT IT IS NECESSARY TO ENSURE COMPLIANCE WITH THE CEASEFIRE. THE DECISION SHOULD BE TAKEN BY A QUALIFIED MAJORITY OF THE GENERAL ASSEMBLY OF THE UNITED NATIONS, GOING BEYOND THE STALEMATE TAKING PLACE WITHIN THE SECURITY COUNCIL.

This intervention was also explicitly requested by the Ukrainian Parliament, which called for the deployment of a peacekeeping mission on Ukrainian territory, launching an appeal to the United Nations for international mediation. The exceptional gravity of what has been happening since February 24 in Ukraine and Vladimir Putin's refusal to accept the start of a genuine peace negotiation now requires the adoption of exceptional measures.

This is obviously a difficult road to undertake, but the immense humanitarian tragedy must push the international community to try to take even the most difficult roads and, on this occasion, to show the world that the UN is an institution created to guarantee justice, peace, and the freedom of peoples. 

 

SOTTOSCRIVI LA PETIZIONE SU CHANGE.ORG

 


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   AGENDA EUROPEA

2-8 May 2022

Monday 2 May

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Wednesday 4 May

Thursday 5 May

Friday 6 May

Saturday 7 May

 

 


L'ABC DELL'EUROPA DI VENTOTENE
PICCOLO DIZIONARIO ILLUSTRATO

Introduzione - L'ABC dell'Europa di Ventotene

Continua la pubblicazione a puntate del dizionario illustrato "L'ABC dell'Europa di Ventotene" a cura di Nicola Vallinoto e illustrazioni di Giulia Del Vecchio (Ultima Spiaggia, Genova-Ventotene 2022, licenza Creative Commons).

Introduzione di Nicola Vallinoto

Questa pubblicazione nasce dalla volontà di far conoscere l’Europa pensata a Ventotene durante la Seconda guerra mondiale alle giovani generazioni come quella di mia figlia che frequenta la scuola media. I ragazzi e le ragazze che affollano d’estate la libreria Ultima Spiaggia di Ventotene sono i primi destinatari a cui si rivolge questo piccolo dizionario illustrato. Le nuove generazioni sono chiamate, infatti, a raccogliere il testimone lasciato dagli autori del Manifesto di Ventotene ottant’anni fa. Per farlo in modo consapevole avranno bisogno di studiare il passato, indignarsi per le ingiustizie del presente e impegnarsi per cambiare il futuro. [...]

Continua su: https://www.peacelink.it/europace/a/49125.html

 

 


LA CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA

Cambiamo rotta all’Europa?

Nel 2017 sono stati ricordati i trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957 il cui principale valore aggiunto, se vogliamo leggerli alla luce del dramma a cui stiamo assistendo da oltre due mesi, era legato all’idea che l’integrazione comunitaria avrebbe dovuto essere la risposta al problema della pace (“risoluti a rafforzare le difese della pace e della libertà e facendo appello agli altri popoli d’Europa animati dallo stesso ideale, perché si associno al loro sforzo”) in continuità con il Trattato della CECA del 1952 (“considerando che la pace mondiale può essere salvaguardata solo con sforzi creativi all’altezza dei pericoli che la minacciano” e “convinti che il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civilizzazione è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche”) e che questo contributo sarebbe stato la conseguenza della rinuncia ad apparenti sovranità assolute e all’antica idea dell’Europa delle nazioni sapendo che l’adesione al processo di integrazione comunitaria rafforza i paesi che entrano e non il contrario.

In occasione dei sessanta anni dai trattati di Roma, il Movimento europeo promosse prima in Italia e poi in Europa la creazione di una rete della società civile sulla base di un appello che sosteneva l’idea che – dieci anni dopo la firma del Trattato di Lisbona a cui seguì cronologicamente la più grave crisi finanziaria da quella del 1929, il terrorismo internazionale di ispirazione internazionale ma di natura endogena, l’esito del referendum sulla Brexit, l’aumento dei flussi migratori causati dalle guerre mai risolte in Medio Oriente e nell’Africa sub-sahariana insieme ai disastri ambientali e all’espropriazione delle terre, gli effetti del cambiamento climatico e i prodromi del trumpismo internazionale – fosse necessario far “cambiare rotta all’Europa”.

Sostenevamo allora che per vincere contro il populismo dei sovranisti con un consenso in crescita in quasi tutti i paesi europei fosse necessario e urgente ridiscutere dell’assetto di policies e politcs sul continente anche in vista delle elezioni europee che si sarebbero svolte nel maggio 2019.

Inascoltato il presidente Mattarella sostenne che si dovesse andare al di là del Trattato di Lisbona aprendo una fase costituente ma non riuscì ad ispirare nemmeno il Parlamento europeo che, considerando un atto velleitario il progetto di proporre formalmente una riforma dell’Unione adottò delle risoluzioni “di iniziativa” quasi tutte concentrate su quel che si sarebbe potuto fare a trattati costanti ed una risoluzione in cui si esprimeva l’auspicio (ma non la richiesta formale) che fosse avviata – se le circostanze lo avessero consentito – la riforma….a data da destinarsi.

Naturalmente e fino all’arrivo della pandemia non si fece nulla a trattati costanti per far fronte alle sfide che avevano scosso l’Unione nei dieci anni successivi alla firma del Trattato di Lisbona e nessuno degli embrionali partiti europei mise al centro dei propri programmi elettorali la rivendicazione del ruolo costituente del futuro Parlamento europeo rivendicando solo di fronte al Consiglio europeo il metodo degli Spitzenkanditaten (una “falsa buona idea” aveva scritto Le Monde) che il Consiglio europeo rifiutò sdegnosamente scegliendo la presidente della Commissione non nella rosa dei candidati alla leadership ma accettando la proposta di Emmanuel Macron e Angela Merkel di portare davanti al Parlamento europeo perché costituisse una sua maggioranza parlamentare Ursula von der Leyen.

Prima delle elezioni europee del 2019 Emmanuel Macron decise tuttavia di far uscire dal torpore il dibattito sul futuro dell’assetto continentale – sostituendosi ai partiti europei che avrebbero dovuto contribuire alla formazione della coscienza politica europea le cittadine e i cittadini europei (art. 10 del Trattato sull’Unione europea) – lanciando l’idea di una “Conferenza sul futuro dell’Europa”.

 Si badi bene: non sul futuro dell’Unione ma sull’assetto del continente di cui il tema della sovranità europea avrebbe dovuto essere posto al centro del dibattito; non una conferenza o incontro intergovernativo e nemmeno una Convenzione sulla base dell’articolo 48 del Trattato sull’Unione europea ma una formula non meglio precisata ma innovativa delle convenzioni di cittadine e cittadini che si erano svolte con modalità e risultati diversi in Islanda, in Irlanda, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Francia (sull’ambiente) e più lontano da noi in Canada. Uno spazio pubblico – come avrebbe detto Jurgen Habermas – all’interno del quale si confrontassero le dimensioni della democrazia rappresentativa e partecipativa.

Sappiamo come è andata: alle elezioni europee del 2019 il populismo dei sovranisti ne è uscito sostanzialmente con le ossa rotte perché i loro rappresentanti non hanno superato una soglia minima per condizionare i processi di decisione nel Parlamento europeo e perché come era naturale la divergenza delle loro posizioni nazionali o nazionaliste ha impedito loro e continua ad impedire loro di formare un unico gruppo parlamentare; l’idea di Macron è stata inserita inizialmente nel trita-carne degli accordi interistituzionali e l’arrivo della pandemia ha aiutato l’operazione di filibustering dei governi nazionali dilatando nel tempo l’inizio della Conferenza e mettendo crescenti ostacoli nel suo ingranaggio innovativo.

Nonostante tutte queste avverse condizioni gli ottocento cittadini scelti per sorteggio, dopo una lunga fase iniziale di sbandamento, hanno scelto la via di “far cambiare rotta all’Unione europea” sia come policies che come politics ed il Parlamento europea ha trovato nelle cittadine e nei cittadini una sponda per rivendicare l’obiettivo della riforma europea.

Il tentativo dei governi di impedire l’avvio dei working groups, che sarebbero stati inevitabilmente uno spazio trasparente destinato a concludersi con decisioni a maggioranza, è fallito e i working groups hanno selezionato una cinquantina di raccomandazioni che non sarebbero mai state partorite né dai governi né da una riunione dei parlamenti nazionali né da molte autoreferenziali reti europee della società civile (Brussels bubble).

Si tratta ora di riflettere sul metodo e sull’agenda per far realmente “cambiare rotta all’Europa”.

Alla vigilia delle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa in cui le istituzioni non hanno discusso e non hanno fatto proposte visionarie (nel senso francese di « vision ») sul futuro dell’Europa, gli europeisti si stanno ora infilando nell’imbuto di una parziale revisione dei trattati «rivendicando» la convocazione di quel meccanismo infernale della convenzione ex art. 48 del Trattato sull’Unione europea inventata quasi venti anni fa e ignorando il fatto che dal «coccodrillo» disegnato dai cittadini nella Conferenza sarà partorita una modestissima lucertola e che il cammino intergovernativo a cui ci costrinsero Angela Merkel e Tony Blair nel 2007 con la dimensione confederale del Trattato di Lisbona non farà cambiare rotta all’Unione europea e non determinerà il futuro dell’Europa. Noi continueremo a lavorare affinché la visione espressa dalle cittadine e dai cittadini sul futuro dell’Europa - oltre a contestare l’irragionevolezza dell’Europa delle nazioni - sia accolta dalle istituzioni aprendo la strada ad una fase costituente in vista delle elezioni europee del 2024 per sostituire integralmente il Trattato di Lisbona, se sarà inevitabile, fra i popoli e gli Stati che lo vorranno.