Newsletter 2 Maggio/2022 - L'EDITORIALE

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DA HELSINKI-1 A HELSINKI-2

I segnali di un’invasione russa dell’Ucraina sono stati per più settimane inequivocabili fin dal dicembre 2021 e sarebbe stato difficile credere che lo schieramento dei tanki dell’armata di Vladimir Putin in Crimea e nelle regioni del Donetsk e di Lugansk oltre che sullo stretto di Kerc’ non preludesse ad una successiva aggressione militare. 

Nonostante questi segnali inequivocabili, la reazione delle Nazioni Unite, della Nato, dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e dell’Unione europea si è fermata sulla soglia dell’annuncio di indeterminate sanzioni incapaci di fermare l’aggressione come fu dimostrato dall’esperienza fallimentare dell’annessione russa della Crimea nell’inverno del 2014.

All’alba del 24 febbraio 2022, il Movimento europeo ha chiesto la cessazione immediata delle ostilità, l’applicazione bilaterale degli accordi di Minsk del 2014-2015 – mai rispettati da Russia e Ucraina – e l’avvio di un dialogo multilaterale simile a quello che portò fra il luglio 1973 e l’agosto 1975 alla sottoscrizione degli “accordi di Helsinki” e alla nascita il 1° gennaio 1995 come Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) a cui aderiscono oggi 57 Stati e 11 partner di cooperazione [1].

Sull’idea di una “Helsinki-2” è tornato il Presidente Sergio Mattarella nel suo discorso davanti alla Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa il 27 aprile 2022 sottolineando le differenze fra la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa come strumento di dialogo e la Conferenza di Jalta (in Crimea) nell’inverno del 1945 - dove i leader delle grandi potenze (Josip Stalin, Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill) presero accordi sull’assetto futuro della Polonia smembrata da Hitler e poi dall’URSS e sull’istituzione delle Nazioni Unite - e avvertendo che il dialogo non può essere una prova di forza fra Stati che invece “devono comprendere di essere sempre di meno grandi potenze”.

Sappiamo che la strada di una Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione (e aggiungiamo: sulla pace) in Europa è lastricata di ostacoli, resa impervia dalle spaventose distruzioni provocate da oltre due mesi di bombardamenti, dalle decine di migliaia di morti in particolare nella popolazione civile fra donne e bambini, dalle torture e dagli stupri, dai milioni di sfollati e di rifugiati in Ucraina, in Russia dove sono stati evacuati con la forza, nei paesi vicini dell’Europa così come impervia è la strada dell’invio di Caschi Blu che richiede una tregua temporanea e che saranno necessari se si arrivasse ad un compromesso sull’assetto futuro dell’Ucraina che da loro dovrebbe essere garantito.

Vale la pena di ricordare che la Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, a cui parteciparono anche gli Stati Uniti e il Canada come membri della NATO e che si svolse principalmente a Ginevra presso la sede europea delle Nazioni Unite, fu il tentativo di ridurre le tensioni della guerra fredda fra l’URSS governata da Leonid Breznev - che cinque anni prima aveva invaso con i suoi tanki Praga e che quattro anni dopo gli accordi di Helsinki scatenò una guerra con l’Afghanistan – e il mondo occidentale essendo acclarato che una parte del pianeta con l’esclusione di quelli che furono poi i paesi non allineati era stato suddiviso a Jalta in quelle che si definivano pudicamente aree di influenza ma che di fatto erano il mondo comunista sotto l’imperialismo di Mosca e il mondo capitalista nel quadro dell’egemonia di Washington.

Vale anche la pena di ricordare che Mosca - oltre a controllare i paesi del COMECON e del Patto di Varsavia – si era annessa militarmente quattordici territori al di fuori della Russia di cui alcuni facevano parte dell’Impero Russo degli Zar fino al 1917 (l’Ucraina del Dnepr, la Bielorussia, l’Armenia, l’Azerbaijan, la Georgia e gran parte dei governatorati baltici) e che Washington aveva usato la sua forza egemonica per “evitare” – così fu giustificato il suo intervento – l’arrivo al potere dei comunisti in Grecia nel 1967 e in Cile nel 1973.

A Helsinki e a Ginevra si ritrovarono di fronte gli Stati Uniti di Richard Nixon (che abbandonò la presidenza nel 1974 per lo scandalo Watergate sostituito da Gerald Ford) e l’URSS di Leonid Breznev e che da parte europea i negoziati furono avviati per la Francia da George Pompidou ma conclusi soprattutto da Valery Giscard d’Estaing che aveva contribuito a far uscire le Comunità europee dall’impasse della crisi monetaria del 1971 e della guerra del Kippur nel 1973, da Willy Brandt e dalla Ostpolitik interrotta con le sue dimissioni da cancelliere nel 1974 per essere sostituito da Helmut Schimdt, dalla relativa equidistanza internazionale che forse pagò con la vita di Aldo Moro prima ministro degli esteri e poi capo del governo in Italia e dal Regno Unito appena entrato nelle Comunità europee e governato prima dal conservatore Edward Heath e poi dal laburista Harold Wilson.

Gli “accordi di Helsinki” – sintetizzati in un decalogo – furono sottoscritti da Belgio, Danimarca, Francia, Regno Unito, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Repubblica Federale Tedesca che facevano parte delle Comunità europee; da URSS, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, Ungheria che facevano parte del COMECON e poi da Stati Uniti, Austria, Canada, Cipro, Città del Vaticano, Finlandia, Grecia, Islanda, Jugoslavia, Liechtenstein, Malta, Norvegia, Portogallo, Monaco, San Marino, Spagna, Svezia, Svizzera e Turchia.

Nel corso delle riunioni della seconda fase a Ginevra furono presentati contributi dall’Algeria, dall’Egitto, da Israele, dal Marocco, dalla Siria e dalla Tunisia con una iniziativa che fu foriera dell’idea lanciata nel 1993 da Gianni De Michelis – purtroppo mai realizzata -  di una Conferenza per la Sicurezza e per la Cooperazione nel Mediterraneo da cui nacque nel 1995 il più modesto Partenariato Euro-Mediterraneo che abortì nella “sarkoziana” Unione per il Mediterraneo del 2008, un’idea che sarebbe necessario e urgente rilanciare nel quadro dell’autonomia strategica dell’Unione europea.  

Dei tre cosiddetti “basket” di Helsinki – secondo la definizione dei negoziatori svizzeri – il primo  relativo alla “sicurezza in Europa” e che comprendeva in particolare l’inviolabilità delle frontiere e l’integrità territoriale degli Stati insieme al non intervento negli affari interni fu considerato dagli osservatori come un risultato favorevole agli interessi dell’imperialismo sovietico che si opponeva all’idea di mettere in discussione la sua area  di influenza in cui si era raggiunto un accordo sull’assetto territoriale europeo a Jalta.

Gli altri due “basket” sulla cooperazione nei campi dell’economia, della scienza, della tecnica e dell’ambiente da una parte e del settore umanitario dall’altro furono considerati dagli europei come forieri di sviluppi positivi nel tempo anche attraverso la creazione della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.

Quel che sta avvenendo nella guerra provocata dall’aggressione della Russia all’Ucraina e la escalation militare di cui ha dato una dimostrazione inequivoca degli interessi di Washington nel conflitto la cosiddetta “dottrina Austin” a Ramstein del segretario alla difesa ed ex-generale USA Lloyd James Austin indica con chiarezza che gli interessi europei sull’assetto del continente sono perlomeno complementari rispetto a quelli dell’alleato statunitense, che “prospettare una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità ad un quadro di sicurezza e di cooperazione (sul continente, n.d.r.) sull’esempio della Conferenza di Helsinki del 1975” – come ha affermato il capo dello Stato Mattarella a Strasburgo – è responsabilità primaria dell’Unione europea e della sua “autonomia strategica” a monte della sua “bussola (militare) strategica” e nel quadro di un’unica politica estera e della sicurezza di cui può fa parte a valle una difesa comune.

Di questo si dovrà parlare al Consiglio europeo straordinario del 30-31 maggio e con una posizione unitaria - o almeno di un gruppo di paesi che condividono l’obiettivo di una cooperazione (politica) strutturata - i paesi europei che fanno parte della NATO dovranno presentarsi al Vertice dell’Alleanza Atlantica che si riunirà a Madrid il 29 e 30 giugno.

Ci attendiamo che l’indicazione degli elementi di una maggiore autonomia e sovranità strategica dell’Unione europea nei settori della difesa con una vero coordinamento nell’azione degli eserciti, delle forze aeronautiche e navali nonché nelle spese militari, nel controllo della vendita degli armamenti ai paesi terzi e nella cybersicurezza; dell’energia; della sicurezza alimentare e della politica industriale emergano con chiarezza nel dialogo che avrà il Presidente Mario Draghi al Parlamento europeo il 3 maggio e poi nelle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa a Strasburgo il 9 maggio perché le proposte prospettate dalle cittadine, dai cittadini e dal Parlamento europeo vanno in questa direzione e devono aprire la strada ad un cambiamento di rotta il cui porto dovrà essere la realizzazione – fra i popoli e i paesi che lo vorranno – degli Stati Uniti d’Europa sulla base di un processo costituente che dovrà essere avviato dopo le elezioni europee del 26 maggio 2024.

coccodrillo

 

 

 

 

 

[1] Albania, Andorra, Armenia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Bielorussia, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Canada, Cipro, Città del Vaticano, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Lichtenstein, Lussemburgo, Macedonia del Nord, Malta, Moldavia, Monaco, Mongolia, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Russia, San Marino, Serbia, Slovacchia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Tagikistan, Turchia, Turkmenistan, Ucraina, Ungheria, Uzbekistan e come partner per la cooperazione Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Marocco, Tunisia, Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Afghanistan, Australia.