Newsletter 2 Maggio/2022 - LA CONFERENZA SUL FUTURO DELL’EUROPA

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Cambiamo rotta all’Europa?

Nel 2017 sono stati ricordati i trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957 il cui principale valore aggiunto, se vogliamo leggerli alla luce del dramma a cui stiamo assistendo da oltre due mesi, era legato all’idea che l’integrazione comunitaria avrebbe dovuto essere la risposta al problema della pace (“risoluti a rafforzare le difese della pace e della libertà e facendo appello agli altri popoli d’Europa animati dallo stesso ideale, perché si associno al loro sforzo”) in continuità con il Trattato della CECA del 1952 (“considerando che la pace mondiale può essere salvaguardata solo con sforzi creativi all’altezza dei pericoli che la minacciano” e “convinti che il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civilizzazione è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche”) e che questo contributo sarebbe stato la conseguenza della rinuncia ad apparenti sovranità assolute e all’antica idea dell’Europa delle nazioni sapendo che l’adesione al processo di integrazione comunitaria rafforza i paesi che entrano e non il contrario.

In occasione dei sessanta anni dai trattati di Roma, il Movimento europeo promosse prima in Italia e poi in Europa la creazione di una rete della società civile sulla base di un appello che sosteneva l’idea che – dieci anni dopo la firma del Trattato di Lisbona a cui seguì cronologicamente la più grave crisi finanziaria da quella del 1929, il terrorismo internazionale di ispirazione internazionale ma di natura endogena, l’esito del referendum sulla Brexit, l’aumento dei flussi migratori causati dalle guerre mai risolte in Medio Oriente e nell’Africa sub-sahariana insieme ai disastri ambientali e all’espropriazione delle terre, gli effetti del cambiamento climatico e i prodromi del trumpismo internazionale – fosse necessario far “cambiare rotta all’Europa”.

Sostenevamo allora che per vincere contro il populismo dei sovranisti con un consenso in crescita in quasi tutti i paesi europei fosse necessario e urgente ridiscutere dell’assetto di policies e politcs sul continente anche in vista delle elezioni europee che si sarebbero svolte nel maggio 2019.

Inascoltato il presidente Mattarella sostenne che si dovesse andare al di là del Trattato di Lisbona aprendo una fase costituente ma non riuscì ad ispirare nemmeno il Parlamento europeo che, considerando un atto velleitario il progetto di proporre formalmente una riforma dell’Unione adottò delle risoluzioni “di iniziativa” quasi tutte concentrate su quel che si sarebbe potuto fare a trattati costanti ed una risoluzione in cui si esprimeva l’auspicio (ma non la richiesta formale) che fosse avviata – se le circostanze lo avessero consentito – la riforma….a data da destinarsi.

Naturalmente e fino all’arrivo della pandemia non si fece nulla a trattati costanti per far fronte alle sfide che avevano scosso l’Unione nei dieci anni successivi alla firma del Trattato di Lisbona e nessuno degli embrionali partiti europei mise al centro dei propri programmi elettorali la rivendicazione del ruolo costituente del futuro Parlamento europeo rivendicando solo di fronte al Consiglio europeo il metodo degli Spitzenkanditaten (una “falsa buona idea” aveva scritto Le Monde) che il Consiglio europeo rifiutò sdegnosamente scegliendo la presidente della Commissione non nella rosa dei candidati alla leadership ma accettando la proposta di Emmanuel Macron e Angela Merkel di portare davanti al Parlamento europeo perché costituisse una sua maggioranza parlamentare Ursula von der Leyen.

Prima delle elezioni europee del 2019 Emmanuel Macron decise tuttavia di far uscire dal torpore il dibattito sul futuro dell’assetto continentale – sostituendosi ai partiti europei che avrebbero dovuto contribuire alla formazione della coscienza politica europea le cittadine e i cittadini europei (art. 10 del Trattato sull’Unione europea) – lanciando l’idea di una “Conferenza sul futuro dell’Europa”.

 Si badi bene: non sul futuro dell’Unione ma sull’assetto del continente di cui il tema della sovranità europea avrebbe dovuto essere posto al centro del dibattito; non una conferenza o incontro intergovernativo e nemmeno una Convenzione sulla base dell’articolo 48 del Trattato sull’Unione europea ma una formula non meglio precisata ma innovativa delle convenzioni di cittadine e cittadini che si erano svolte con modalità e risultati diversi in Islanda, in Irlanda, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Francia (sull’ambiente) e più lontano da noi in Canada. Uno spazio pubblico – come avrebbe detto Jurgen Habermas – all’interno del quale si confrontassero le dimensioni della democrazia rappresentativa e partecipativa.

Sappiamo come è andata: alle elezioni europee del 2019 il populismo dei sovranisti ne è uscito sostanzialmente con le ossa rotte perché i loro rappresentanti non hanno superato una soglia minima per condizionare i processi di decisione nel Parlamento europeo e perché come era naturale la divergenza delle loro posizioni nazionali o nazionaliste ha impedito loro e continua ad impedire loro di formare un unico gruppo parlamentare; l’idea di Macron è stata inserita inizialmente nel trita-carne degli accordi interistituzionali e l’arrivo della pandemia ha aiutato l’operazione di filibustering dei governi nazionali dilatando nel tempo l’inizio della Conferenza e mettendo crescenti ostacoli nel suo ingranaggio innovativo.

Nonostante tutte queste avverse condizioni gli ottocento cittadini scelti per sorteggio, dopo una lunga fase iniziale di sbandamento, hanno scelto la via di “far cambiare rotta all’Unione europea” sia come policies che come politics ed il Parlamento europea ha trovato nelle cittadine e nei cittadini una sponda per rivendicare l’obiettivo della riforma europea.

Il tentativo dei governi di impedire l’avvio dei working groups, che sarebbero stati inevitabilmente uno spazio trasparente destinato a concludersi con decisioni a maggioranza, è fallito e i working groups hanno selezionato una cinquantina di raccomandazioni che non sarebbero mai state partorite né dai governi né da una riunione dei parlamenti nazionali né da molte autoreferenziali reti europee della società civile (Brussels bubble).

Si tratta ora di riflettere sul metodo e sull’agenda per far realmente “cambiare rotta all’Europa”.

Alla vigilia delle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa in cui le istituzioni non hanno discusso e non hanno fatto proposte visionarie (nel senso francese di « vision ») sul futuro dell’Europa, gli europeisti si stanno ora infilando nell’imbuto di una parziale revisione dei trattati «rivendicando» la convocazione di quel meccanismo infernale della convenzione ex art. 48 del Trattato sull’Unione europea inventata quasi venti anni fa e ignorando il fatto che dal «coccodrillo» disegnato dai cittadini nella Conferenza sarà partorita una modestissima lucertola e che il cammino intergovernativo a cui ci costrinsero Angela Merkel e Tony Blair nel 2007 con la dimensione confederale del Trattato di Lisbona non farà cambiare rotta all’Unione europea e non determinerà il futuro dell’Europa. Noi continueremo a lavorare affinché la visione espressa dalle cittadine e dai cittadini sul futuro dell’Europa - oltre a contestare l’irragionevolezza dell’Europa delle nazioni - sia accolta dalle istituzioni aprendo la strada ad una fase costituente in vista delle elezioni europee del 2024 per sostituire integralmente il Trattato di Lisbona, se sarà inevitabile, fra i popoli e gli Stati che lo vorranno.