Newsletter 20 Giugno/2022 - L'EDITORIALE

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EUKRAINE, e poi?

Secondo un’opinione sempre più diffusa, paradossale e sproporzionata, la politica di allargamento prima delle Comunità Europee fino al 1986 e poi dell’Unione europea dal 1995 al 2013 sarebbe stata e sarà ancor di più nei negoziati con i Balcani Occidentali (Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina, Albania, Kosovo) e con i paesi vicini dell’Europa orientale (Ucraina, Moldova e Georgia) parte integrante della politica estera e della sicurezza comune all’Unione europea, lasciando per ora sullo sfondo la Turchia a cui fu attribuito nel 1999 lo status di candidato e che per il Consiglio soddisfaceva nel 2004 i criteri per l’avvio dei negoziati di adesione.

Nonostante i timidi passi in avanti compiuti ad ogni revisione dei trattati di Roma, sappiamo che le Comunità europee sono nate in assenza di qualunque obiettivo legato al ruolo dell’integrazione europea nel mondo – secondo la logica del gradualismo di Jean Monnet – e che nel corso degli anni l’Unione europea non si è mai dotata di una vera e propria politica estera e di sicurezza comune né tanto meno di adeguati strumenti di difesa comune avendo accettato di essere parte dell’egemonia americana e di usare la sua deterrenza nel quadro della NATO con l’esclusione dei paesi che hanno dichiarato la loro formale neutralità pur sapendo che in caso di pericolo avrebbero potuto contare sull’ombrello atlantico.

È così che l’Unione europea non dispone di una politica estera comune verso il continente africano, verso il Vicino e il Medio Oriente, verso la regione indo-cinese e verso l’America Centrale e l’America Latina e non ha una posizione comune sulla riforma delle Nazioni Unite e sui grandi negoziati internazionali come quelli sulle armi tradizionali, le armi chimiche e le armi nucleari né tanto meno sul controllo della vendita degli armamenti ai paesi terzi.

Al fine di mantenere l’azione esterna sotto il controllo e il potere di decisione degli Stati, i governi hanno deciso con il Trattato di Lisbona nel 2009 di frammentare l’azione esterna dell’Unione europea in parti separate:

Secondo i trattati originari e fino al Trattato di Maastricht, la politica di allargamento era concepita come uno strumento per ampliare lo spazio economico europeo nella sua dimensione del mercato unico e nelle politiche dell’economia reale che lo accompagnavano  e la capacità di attrazione dell’Unione europea era (e lo è certamente per i Balcani occidentali) principalmente legata al  successo del suo progresso economico e sociale e non già alla garanzia che essa poteva e può dare alla sicurezza esterna dei suoi membri come è apparso chiaro quando l’adesione all’Alleanza Atlantica dei paesi usciti dall’imperialismo sovietico è avvenuta prima della loro adesione all’Unione europea.

Il “grande allargamento” avvenuto fra il 2004 e il 2013 da quindici a ventotto paesi – che la Commissione avrebbe voluto realizzare secondo il metodo graduale della “regata” e che il Consiglio impose con il metodo del “big bang” per i primi otto Stati dell’Europa centrale nonostante la timidezza delle loro riforme interne – era sostanzialmente fondato sull’attrazione economica e sociale (senza sottovalutare le libertà di circolazione) e sulla convinzione dei candidati che la loro appartenenza all’Unione europea li avrebbe aiutati nell’opera di Nation building o re-building dopo più di quaranta anni di mancanza di identità e di indipendenza nel quadro dell’imperialismo sovietico sottovalutando o addirittura ignorando il fatto che l’integrazione europea era stata concepita per superare la divisione del continente in Stati-nazione e realizzare un sistema di sovranità condivisa.

Per chi ha seguito – come comunicatore o come militante europeista – i referendum sull’adesione in Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria nel 2003 è stata significativa l’assenza di qualunque riferimento alla dimensione ideale dell’integrazione europea e di una campagna delle istituzioni europee tesa a sottolineare il fatto  che l’Unione europea era uno “stato di diritto” e che il rispetto dei cosiddetti criteri di Copenaghen del 1993 (la democrazia, l’economia di mercato, la partecipazione al patrimonio della legislazione europea) doveva riguardare non solo chi entrava ma anche chi ne era membro.

Non si può certo sottovalutare il fatto che la realizzazione di un progresso economico e sociale e l’impegno a creare le condizioni di una coesione economica, sociale e territoriale facilitando la riduzione delle disuguaglianze (che si sono accresciute con le politiche di rigore e che hanno reso l’Unione europea meno resiliente quando ha dovuto affrontare le conseguenze della pandemia ed ora quelle della guerra) abbia contribuito alla stabilità di tutta l’area che fa parte dell’Unione europea e dei paesi europei che sono ad essa legati da un accordo di libero scambio.

È tuttavia evidente che la stabilità economica (fino ad ora non accompagnata da una adeguata armonizzazione sociale) non basta in sé, non garantisce una stabilità politica e non contribuisce a rafforzare la capacità di integrazione dell’Unione europea, un obiettivo che fu indicato dai governi su proposta di Jacques Delors al Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 e che è stato presto e sciaguratamente dimenticato.

E’ probabile che il Consiglio europeo del prossimo 23-24 giugno – nonostante le riserve di una minoranza consistente di governi - approvi politicamente l’affrettato parere della Commissione europea per dare all’Ucraina e alla Moldavia il segnale politico che esse sono “eleggibili” alla candidatura, che le “condizioni” elencate dalla Commissione in tema di giustizia, di economia di mercato (gli “oligarchi”), di lotta alla corruzione, di libertà di stampa e – last but not least – di  diritti delle minoranze non saranno preliminari all’atto di candidatura ma che faranno parte dei criteri per aprire i negoziati di adesione (che possono sempre essere interrotti se lo Stato  candidato non rispetterà il calendario delle riforme come di fatto è avvenuto con la Turchia) e che i capi di Stato e di governo confermeranno l’impegno a proseguire i negoziati con i Balcani occidentali senza applicare ai nuovi  candidati procedure eccezionali e discriminatorie nei loro confronti.

Nel complesso mosaico dei negoziati per l’allargamento ai Balcani occidentali da una parte ed ai paesi dell’Europa orientale dall’altra emergeranno presto temi e problemi che richiederanno nello stesso tempo capacità di adattamento dei paesi candidati e un aggiornamento di politiche dell’Unione europea su cui erano già stati raggiunti difficili accordi almeno fimo al 2026 (fine del Next Generation EU) se non fino al termine del Quadro Finanziario Pluriennale nel 2027.

Pensiamo in particolare alla capacità fiscale europea e alla necessità di vere risorse proprie per evitare che le necessità finanziarie dei nuovi paesi si ripercuotano sulle quote dei paesi contributori netti, alla riforma della PAC, agli aiuti alimentari, alle politiche energetiche e alla lotta al cambiamento climatico, alla politica commerciale, alla libera circolazione delle persone e dei  servizi, alle politiche migratorie e al controllo delle frontiere, al dumping sociale, alla prevenzione della criminalità e al rafforzamento del ruolo della Procura Europea e al Mandato di arresto europeo, alla diversità culturali e linguistiche, alle non-discriminazioni e last but not least al rispetto dello stato di diritto e al primato del diritto europeo.

Occorre anche precisare un punto di sostanza e non solo di diritto che è stato ignorato da tutta la stampa. L’accordo nel Consiglio europeo sarà solo la terza tappa dopo la domanda di adesione e il parere della Commissione perché dopo il Consiglio europeo ci dovrà essere un voto di approvazione alla maggioranza assoluta dei membri del Parlamento europeo allo status di candidato, la decisione all’unanimità del Consiglio e infine l’avvio dei negoziati che dovranno precisare “gli adattamenti che le nuove adesioni comportano per i trattati dell’Unione europea” a cominciare dalla composizione delle istituzioni europee (art. 49 TUE).

Vale la pena di ricordare che i parlamenti nazionali e le opinioni pubbliche, esclusi durante tutta la fase dei negoziati di adesione, saranno chiamati alla fine a dare il loro accordo o a esprimere il loro disaccordo per via parlamentare o referendaria e che i governi al tempo della Convenzione costituente nel 2003 non accettarono la proposta di far precedere l’avvio dei negoziati dalla ratifica di un accordo internazionale.

Considerata la complessità e la durata delle procedure di adesione, Emmanuel Macron si appresta a presentare al Consiglio europeo una sua proposta di “Comunità politica europea” (CPE) che dovrebbe contenere settori che non dovranno dipendere da norme europee (politica estera e della sicurezza, energia, trasporti, investimenti, infrastrutture e libera circolazione a cui il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha aggiunto Erasmus, ricerca e Horizon ed alcuni settore del mercato interno), una comunità aperta ai paesi candidati ma non alternativa all’adesione e ad altri Stati europei non membri dell’Unione europea.

Come sappiamo, Enrico Letta ha presentato un’ipotesi simile di “confederazione” concepita come un vertice informale di Capi di stato e di governo di 36-37 membri che si incontri regolarmente alla vigilia delle riunioni del Consiglio europeo mentre il governo austriaco – molto più prudente sull’ipotesi di una adesione accelerata all’Unione europea – ha proposto in un non paper una new community sull’allargamento e la politica di vicinato più vicina alla dimensione del Consiglio d’Europa con competenze sul mercato unico, il  commercio e la politica fiscale, il clima e l’energia, i trasporti, l’educazione, la scienza e la ricerca, la politica estera, la sicurezza alimentare e le agenzie europee.

Come un fiume carsico, è rinato dalle macerie dell’Ucraina, il tema dell’Europa a cerchi concentrici o a più velocità in un “insieme di sistemi” (come lo definì François Mitterrand) su cui sarà inevitabile riflettere e trovare delle soluzioni innovative quando si riaprirà il cantiere della riforma dell’Unione europea che, per giungere alla fine dei lavori, dovrà eludere il metodo tradizionale di un negoziato intergovernativo preceduto da una convenzione e seguire la via democratica di un processo democratico e costituente che dovrebbe essere avviato dopo le elezioni europee nel maggio 2024 ed essere preceduto da una grande mobilitazione popolare promossa dai federalisti, dalla società civile e dai partiti innovatori.

Roma-Bruxelles, 20 giugno 2022

coccodrillo