Newsletter 6 Novembre/2023 - L'EDITORIALE

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Una Unione più larga e dunque più forte?

L’impero sovietico si è dissolto più di trenta anni fa ed i paesi dell’Europa centrale che ne facevano parte sono entrati nella casa dell’Unione europea fra il 2005 (i paesi Baltici ed i paesi del cosiddetto “gruppo di Visegrad” in via di progressiva evaporazione) - insieme alla Slovenia divenuta indipendente dopo la fine della Federazione Jugoslava, a Cipro e a Malta - ed il 2007 con l’entrata della Bulgaria e la Romania a cui si è unita poi la Croazia nel 2013.

Ci sono voluti quindici anni perché si completasse il processo di unificazione dell’Europa occidentale con l’Europa centrale e cioè con i territori che facevano parte della Prussia e dell’Impero Austro-Ungarico dopo gli sconvolgimenti della Prima, della Seconda Guerra Mondiale e della divisione dell’Europa fra l’egemonia americana e l’imperialismo sovietico.

Come sappiamo, i paesi dell’Europa centrale usciti dall’impero sovietico si sono protetti sotto l’ombrello della NATO e cioè nel quadro dell’egemonia americana prima di entrare nella casa comune europea anche perché l’Unione europea aveva rinunciato ad essere nello stesso tempo il partner politico dell’Alleanza Atlantica e il pilastro europeo della sua organizzazione militare pur sapendo o pensando fino al 24 febbraio 2022 che l’ipotesi di un’aggressione armata della Russia ad uno dei suoi ex-satelliti sarebbe stata molto remota.

La Federazione Jugoslava si è dissolta più di trenta anni fa ma i suoi territori divenuti progressivamente Stati indipendenti hanno atteso a lungo prima di presentare domanda di adesione all’Unione europea a cominciare dalla Macedonia (divenuta poi “del Nord”) nel 2004 per finire con la Bosnia nel 2016 passando per il Montenegro nel 2008 e la Serbia nel 2009 (insieme alla Albania).

Essi hanno atteso ancora più a lungo perché fosse concesso loro lo “status di candidato” (che non è tuttavia formalmente previsto dal Trattato, con una formula suggerita solo nel 2022 dall’Ucraina e poi accettata dal Consiglio europeo, dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo) e ancor di più perché fossero aperti i negoziati di adesione con una attesa che per la Macedonia (“del Nord”) è durata ben diciotto anni.

Molti ricordano la doccia fredda di Jean-Claude Juncker quando disse che di negoziati di adesione non se ne sarebbe parlato fino al 2019 e che dunque i negoziati sarebbero stati di fatto congelati anche dopo il 2019, complici il COVID e l’aumento dei flussi migratori.

I negoziati di adesione non hanno mai intrapreso la via di un esame dettagliato dossier per dossier (che sono più di trenta) come era avvenuto invece per i paesi dell’Europa centrale ed i rapporti annuali della Commissione europea sullo stato delle riforme interne sono stati considerati a Bruxelles e nelle capitali come un doveroso ma inutile esercizio burocratico.

L’aggressione della Russia all’Ucraina, con le minacce nemmeno tanto velate alla Moldova e alla Georgia, ha mutato radicalmente la dimensione geopolitica delle relazioni dell’Unione europea con i paesi candidati perché i Ventisette si sono resi conto, forse tardivamente, che il processo di unificazione dell’Unione europea verso l’Europa orientale ed i Balcani dovesse procedere contestualmente o secondo il metodo della “regata” e cioè con i negoziati che partono o ripartono tutti insieme e si concludono poi – come ha detto la Commissione europea  - sulla base dei meriti di ogni paese o secondo il metodo del “big bang” irresponsabilmente immaginato dall’ineffabile Charles Michel per il 2030.

Tutto ciò nonostante la trasparente pretesa di Volodymyr Zelensk’kyj, secondo il quale l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea debba avere la priorità rispetto a tutte le altre adesioni dando così nello stesso tempo la garanzia della sicurezza al suo paese, all’Unione e agli altri paesi candidati insieme al rafforzamento della democrazia europea e nonostante il fatto che tutti i leader che sono andati a Kiev abbiano lasciato intendere che condividevano questa pretesa a cominciare dall’escalation mediatica di Ursula von der Leyen.

Al Consiglio europeo del 14 e 15 dicembre, dopo l’inutile Vertice di Granada di ottobre, si deciderà se far partire i negoziati di adesione per l’Ucraina, la Moldova e la Bosnia e se far ripartire quelli con la Macedonia, il Montenegro, la Serbia e l’Albania rinviando a tempi migliori le relazioni con il Kosovo e la Georgia seguendo o il metodo del big-bang di Charles Michel per fissare una data ad quem o più probabilmente il metodo della regata.

Da un certo punto di vista, la decisione fra questi due metodi appare a noi marginale rispetto a due aspetti di sostanza che condizionano da anni il dibattito sulle dimensioni territoriali dell’Unione europea e sul tema dei suoi confini politici esterni.

Il primo aspetto riguarda la vexata quaestio dell’alternativa fra approfondimento (deepening) e dell’allargamento (enlarging) che non è mai stata risolta in occasione di quattro precedenti unificazioni o, meglio, che è stata risolta privilegiando l’allargamento come è avvenuto nel 1973 con l’adesione della Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito, nel 1981 con l’adesione della Grecia, nel 1986 con l’adesione del Portogallo e della Spagna perché l’Atto Unico fu negoziato prescindendo da quelle adesioni, nel 1995 con l’adesione dell’Austria, della Finlandia e della Svezia che precedettero il Trattato di Amsterdam ed infine con il big bang del 2005 che ha preceduto l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009 considerando il contenuto irrilevante del Trattato di Nizza del 2003 e ricordando che i rappresentanti dei paesi candidati parteciparono alla Convenzione sul Trattato-costituzionale e non sono stati invece invitati ad assistere ai lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa.

Teoricamente l’approfondimento prima dell’allargamento avrebbe dovuto avvenire con il Trattato di Maastricht del 1993, che fu tuttavia concepito nel 1988 per realizzare l’unione economica e monetaria e fu poi completato con l’idea di gettare le basi di una unione politica dopo la caduta del Muro di Berlino ma che mantenne, con i suoi tre pilastri, una struttura prevalentemente intergovernativa.

Di fronte alla prospettiva di una Unione europea che potrebbe allargare i suoi confini a Oriente verso l’Ucraina e la Moldova e a Sud-Est verso i Balcani giungendo fino a comprendere trentaquattro Stati membri in attesa della Georgia e del Kosovo, la logica politica, economica, sociale, finanziaria ed istituzionale vorrebbe che le conseguenze geopolitiche di questo ampliamento vengano affrontate ed adottate prima del completamento della sua unificazione non solo per quanto riguarda il suo funzionamento istituzionale e cioè il processo di decisione e la composizione delle istituzioni europee ma anche per quanto riguarda la dimensione e la struttura del suo bilancio, i principi dello stato di diritto ed il rispetto dei valori fondamentali a cominciare dalla protezione delle minoranze, il primato del diritto dell’Unione europea e la condivisione della sovranità, la cittadinanza europea e la libera circolazione ivi comprese le politiche migratorie.

Il secondo aspetto riguarda la dimensione democratica e in definitiva la garanzia del consenso consapevole poiché, in base al Trattato di Lisbona, il Parlamento europeo è consultato all’atto della domanda di adesione ed è chiamato ad esprimere il suo accordo alla fine dei negoziati sui trattati fra l’Unione europea e lo Stato candidato ed i parlamenti nazionali sono informati sulle domande di adesione e sono chiamati a ratificare i trattati conclusi dai governi.

Appare dunque necessario ed urgente aggiornare le procedure di adesione per rafforzare il ruolo dei parlamenti (europeo e nazionali, ivi compresi i poteri regionali con un ruolo legislativo) durante tutto il processo di allargamento come viene suggerito dal Parlamento europeo nel rapporto delle commissioni affari esteri ed affari costituzionali e dal rapporto della Assemblea nazionale francese elaborato da Jean-Louis Bourlanges.

Infine e poiché in molti casi i trattati di adesione, sia nei paesi membri dell’Unione europea che nel paesi candidati, i trattati di adesione sono sottomessi a dei referendum confermativi o consultivi è necessario avviare delle campagne di informazione e di comunicazione affidandole alla responsabilità e alle risorse anche finanziarie della Commissione europea e del Parlamento europeo in modo tale da mobilitare l’azione delle reti della società civile, dei partners sociali e del mondo accademico e dell’educazione nell’ambito dei programmi europei che sono già aperti alla partecipazione dei paesi candidati affinché l’unificazione dell’Europa sia un’operazione di successo.

Berlino, 2 novembre 2023

coccodrillo