EUROPA IN FRAMMENTI,
MONDO IN SUBBUGLIO,
BALCANI IN SOSPESO.
E INTANTO IN ITALIA IL PIAVE CHE FA?
MORMORA…
In Georgia vengono autorevolmente denunciati brogli sul voto alle elezioni appena tenutesi. Orbàn Viktor, titolare della presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea, si reca in quel Paese complimentandosi per la vittoria del partito filo-russo e bene scrive oggi sul Corriere della Sera Paolo Valentino chiedendo, a pag. 30, di «Boicottare il vertice di Budapest», in programma l’8 novembre prossimo nell’UE per discutere fra l’altro del “piano Draghi” sulla competitività (in queste Newsletter molto si è scritto sulle modalità possibili di emarginare a questo riguardo una situazione pregiudizievole per l’Unione perché capace di aumentarne la frammentazione: 13 maggio, P.V. Dastoli; 17 giugno, N. Parisi e D. Rinoldi; 15 luglio, D. Rinoldi; 7 ottobre, P.V. Dastoli; 14 ottobre ancora P.V. Dastoli). Del resto è proprio Orbàn ad evocare (10 aprile 2024) i chiodi sulla bara dell’UE quando ne indica uno importante nel nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo entrato in vigore a maggio per trovare applicazione nel 2026.
L’Europa è in frammenti (non ancora in frantumi) anche guardando al conflitto russo-ucraino e alle sue ripercussioni, espressione di un Mondo in disordine che vede temerarie ricerche di un “nuovo ordine” (col cosiddetto Sud del Mondo contro il “vecchio ordine” occidentale) pure nella denominazione di un’operazione bellica israeliana (appunto chiamata «operazione nuovo ordine»), condotta per uccidere Nasrallah, al vertice di Hezbollah, a fine settembre a Beirut.
In Italia si ricorda la canzone del Piave (di Ermete Giovanni Gaeta), risalente alla prima guerra mondiale e alla storia del “fiume sacro alla Patria” che «mormora[va]» ieri al passaggio dei primi fanti il 24 maggio (1915) e al quale si fa ripetere oggi, da parte del Governo, «non passa lo straniero». Si utilizza a tal fine anche il territorio albanese, in un contesto, quello dei Balcani, dov’è in atto un percorso di adesione alla UE che tiene quell’area in sospeso fra opposte tentazioni geopolitiche.
Così, mi sembra opportuno fare oggi un aggiornamento circa la situazione dei migranti (16 persone) inviati il 16 ottobre in Albania dall’Italia – onde esaminarne secondo una procedura accelerata la situazione di eventuale godimento di protezione internazionale in Italia – e richiamati rapidissimamente tutti nel nostro Paese, anzitutto (4 persone) in ragione di un errore nell’applicazione ratione personarum del Protocollo italo-albanese del 2023 (ratificato nel 2024) per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, successivamente (le altre 12 persone) a motivo dei decreti della sezione specializzata del Tribunale civile di Roma che non hanno convalidato (il 18 ottobre) i provvedimenti di trattenimento nel Paese balcanico.
Ne ho scritto su Il Dubbio del 26 ottobre, a pag. 11 (Il Decreto migranti sui Paesi di origine “sicuri” e quell’intreccio di diritti, doveri, Corti e ordinamenti) e ora il Governo ha presentato (il 21 ottobre) i ricorsi in Cassazione, ma ha anche prodotto un testo di decreto legge che interviene sul tema (Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale; G.U. n.249/2024, serie generale).
Su Il Dubbio scrivevo che c’era voluto un po’ ma finalmente, a distanza di due giorni dal Consiglio dei Ministri che l’aveva approvato, quello stesso 21 ottobre, il decreto legge ha superato il vaglio del Presidente della Repubblica, che ai sensi dell’art. 87 della Costituzione fra l’altro appunto «emana i decreti aventi valore di legge». Nel testo, sostitutivo di precedente regolazione di rango interministeriale, i Paesi definibili sicuri di origine ai fini del ritorno del migrante cui non sia riconosciuta la protezione internazionale da parte del nostro Paese son ridotti a 19, con l’esclusione dei precedentemente compresi Colombia, Camerun e Nigeria. Ciò per venire incontro - nelle parole di esponenti del governo - alla sentenza della Corte di giustizia UE del 4 ottobre scorso, resa in via pregiudiziale circa un caso di negazione della protezione a un cittadino moldavo (dunque originario di Stato europeo ma non membro dell’UE) da parte della Repubblica Ceca. E però, conseguentemente, l’esigenza è quella di superare con la conversione in legge di questo testo i 12 decreti della sezione specializzata (immigrazione) del Tribunale di Roma di «non convalida» del trasferimento in Albania di quegli stranieri per i quali era stato avviato un percorso procedurale accelerato, comprensivo di dislocazione territoriale, consentito dal Protocollo italo-albanese sopra citato (come si ricordava i “delocalizzati” erano inizialmente 16 ma riguardo a 4 si era incorsi in errore perché in condizioni o di minore età o di vulnerabilità già contemplate dal Protocollo come impedimento al trasferimento).
I decreti del Tribunale, adottati da sei giudici diversi compresa la Presidente di sezione Sangiovanni, si sono rifatti alla sentenza pregiudiziale interpretativa della direttiva UE 2013/32, in materia di procedure comuni agli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale. In ragione dell’effetto sostanzialmente erga omnes (o, meglio, ultra partes: v. V. Petralia, La validità degli atti dell’Unione europea, Cacucci, Bari, 2024, capitolo 1, par. 4) di siffatte decisioni giudiziarie della Corte UE i giudici romani ne hanno affermato l’applicazione in Italia fra l’altro in modo tale da negare la qualifica di Paese «sicuro» d’origine del migrante quando rispetto a quel Paese, «sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale», NON «si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…) né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato o internazionale». Così si esprime il punto 52 della sentenza sopra ricordata della Corte UE anche con riferimento a ulteriore direttiva, la 2011/95, che stabilisce norme sull’attribuzione della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, aggiungendosi all’altra che interviene sulla procedura.
E infatti i decreti romani prendono atto, ad esempio riguardo all’origine egiziana del trattenuto in Albania (decreto n. R.G. 42251/2024), che questo Stato, «nelle conclusioni della scheda-Paese dell’istruttoria del Ministero degli affari esteri (…), basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune categorie di persone: oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani o coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione di cui all’art. 8, comma 1, lettera e) del D.lvo 19 novembre 2007, n. 251». O ancora, riguardo all’origine dal Bangladesh (decreto n. R.G.42260/2024), si rileva che nelle conclusioni dello stesso Ministero, «basate su informazioni tratte da fonti qualificate di riferimento, il Bangladesh è definito Paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune persone appartenenti alla comunità LGBTQ+, vittime di violenza di genere (…), minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici».
Ne consegue che il Paese dei suddetti trattenuti in Albania «non può essere riconosciuto come Paese sicuro» per violazione delle «condizioni sostanziali della qualificazione (…) enunciate nell’allegato I della direttiva 2013/32». Il ribadire da parte del nuovo decreto, fra i “Paesi sicuri”, Stati come gli ultimi due appena nominati non esenta comunque da futuri interventi giudiziari che, facendosi carico di un adeguato onere della prova nel caso concreto e pur nell’articolazione di ricorsi possibili, disapplichino la norma benché contenuta in una legge ordinaria di trasformazione del decreto legge. Si tratta infatti di tener conto dell’art. 11 della Costituzione in ordine, come più volte sottolineato dalla Corte costituzionale (fra tutte v. la decisione 170/1984), alla superiorità della norma dell’UE – perché comportante «limitazioni di sovranità» – su quella contrastante nazionale, la quale ultima va disapplicata quando non interpretabile conformemente alla regola dell’ordinamento euro-unitario di applicabilità diretta. E ben può essere di applicabilità diretta un principio sancito dalla Corte di giustizia e una regola self executing (autoapplicativa) pur contenuta in una direttiva. Non è quindi indispensabile il ricorso all’art. 117, co.1, della Costituzione (La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali), capace di determinare il rinvio da parte del giudice ordinario in Corte costituzionale della norma interna di legge contrastante col diritto UE quando quest’ultimo non sia di diretta applicabilità nazionale. Ricordo ad esempio la decisione della Consulta n. 406 del 2005, dove si dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione Abruzzo (Disposizioni urgenti in materia di zootecnia) per insanabile contrasto – non rimediabile tramite un’interpretazione conforme del diritto interno a quello dell’UE – con una direttiva del Consiglio UE sulle misure di lotta contro alcune malattie degli animali).
Va comunque bene sottolineato quanto scrive il Prof. Renato Balduzzi, quando ricorda sulla stampa quotidiana (e ometto qui ogni altro pur egualmente autorevole riferimento a cultori del diritto dell’UE e dei suoi rapporti con la nostra Costituzione) che in questo sistema dei rapporti tra ordinamento UE e ordinamento italiano «è fatto salvo il rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale [nazionale] e dei diritti inviolabili che compete alla [nostra] Corte costituzionale verificare» (Diritto d’asilo – sistema UE, in Avvenire del 26 ottobre, pagg. 1 e 16). Ricordo ad esempio su questo punto la vicenda approdata in Corte costituzionale sul cosiddetto “caso Taricco” (ricapitolabile leggendone la sentenza n. 115 del2018).
Il decreto legge si propone anche di innovare proprio in tema di reclami avverso i decreti del genere dei 12 sopra riferiti del Tribunale di Roma. Non c’è più il solo ricorso in Cassazione, come ha dovuto fare il Governo (Ministro dell’interno) nei casi qui in oggetto sotto l’imperio della disciplina attuale, ma secondo un nuovo comma 4 dell’art. 35 bis del decreto legislativo 25/2008 di attuazione della direttiva 2005/85/CE, «è ammesso reclamo alla Corte d’appello nel termine di cinque giorni, decorrente dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria». Il fatto è che nell’innovazione proposta si specifica che «la Corte d’appello, sentite le parti, decide con decreto immediatamente esecutivo, entro dieci giorni dalla presentazione del reclamo (…). La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non opera nei procedimenti di cui al presente comma». Proprio su questo aumento di competenze sono intervenuti, contestualmente all’approvazione del nuovo decreto sulle procedure di riconoscimento della protezione internazionale, i Presidenti dei 26 distretti di Corte d’appello italiani per lamentare, con una lettera indirizzata alla Presidente del Consiglio, al Ministro della giustizia, al Ministro dell’economia e al Consiglio superiore della magistratura, un pericolo assai concreto di “intasamento” degli organi giudicanti con pregiudizio dell’avviata opera di contrazione dei tempi processuali in materia civile anche con riferimento al PNRR (v. www.libenteritalia.eu) e dunque ad impegni assunti in materia di riforme interne nei confronti dell’Unione europea.
DINO G. RINOLDI