L’8 luglio le forze armate egiziane hanno disperso una manifestazione di sostenitori del presidente eletto – e poi destituito dal colpo di Stato militare – Morsi uccidendo cinquanta persone e arrestando oltre mille manifestanti.
Da allora in poi e nonostante i patetici appelli “alla calma” dei paesi occidentali, abbiamo assistito a una progressione di violenze: dei militari e della polizia contro i Fratelli mussulmani, dei settori radicali degli islamici contro le forze dell’ordine e degli islamici contro i copti. Solo dopo un mese e mezzo dall’inizio di una guerra civile preannunciata, si sono riuniti ieri a Bruxelles i rappresentanti delle diplomazie europee preceduti da una sollecitazione della cancelliera Merkel e del Presidente Hollande e da una dichiarazione congiunta del Presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e del Presidente della Commissione europea Barroso. L’unica conseguenza “imprevidibile” (è l’aggettivo usato dall’Unione europea) appare essere la sospensione temporanea degli aiuti economici europei all’Egitto previsti fra il 2011 e il 2013 per un ammontare globale di cinque miliardi di euro, largamente inferiore a quelli (soprattutto militari) provenienti dagli USA e dall’Arabia Saudita. Per prendere questa decisione è attesa nei prossimi giorni una riunione dei ministri degli Esteri dei 28.
Molti osservatori hanno già sottolineato il carattere inefficace e forse controproducente di queste sanzioni, che colpirebbero una società già economicamente allo stremo, punirebbero in parte i già deboli settori della società civile che avevano rialzato la testa prima e dopo la caduta di Mubarak e aumenterebbero le elevatissime tensioni nel paese. Tali sanzioni, inoltre, dovrebbero essere – se decise - il frutto di una decisione comune alle autorità internazionali coinvolgendo gli altri attori sullo scacchiere medio orientale come gli Stati Uniti e la Lega Araba e dovrebbero comprendere una sospensione concertata delle forniture di armamenti.
Quel che sta avvenendo in Egitto, che si affianca a quel che sta succedendo in Siria insieme al caos in Iraq e in Libia, mette in luce – dal punto di vista degli interessi e della capacità di intervento dell’Unione europea – tre aspetti essenziali e complementari: 1. l’inesistenza della politica estera e della sicurezza comune, uscita massacrata dai negoziati intergovernativi durante e dopo l’elaborazione della defunta costituzione europea. La responsabilità di questo stato di cose non può essere attribuita alla pur evanescente signora Ashton, ma alla mancanza di strumenti istituzionali coercitivi che obblighino gli Stati membri a passare dalla cooperazione a decisioni collettive assunte da un’autorità indipendente dai governi nazionali e sottoposte allo scrutinio periodico del Parlamento europeo. Si sa che una vera politica estera richiede un sistema efficiente di informazione, la capacità politica di definire con precisione i propri interessi strategici, strumenti di intervento per prevenire i conflitti, per mantenere (keeping) e costruire (building) la pace e, infine, politiche per aiutare a ricostruire tessuti civili e democratici distrutti dai conflitti. Di queste cìnque condizioni, forse solo l’ultima appartiene al sistema dell’Unione europea; 2. la fine impietosa dell’Unione per il Mediterraneo, costosamente nata a Parigi per esaudire il concetto vetusto della grandeur francese di Nicolas Sarkozy e mai decollata; 3. la mancanza di proposte degli europei ai segnali del cosiddetto risveglio arabo che ha inizialmente coinvolto centinaia di migliaia di giovani nelle piazze della Tunisia (dove, fra mille difficoltà, si stanno ponendo le basi di un forte movimento laico e progressista), del Marocco e dell’Egitto ma anche del Bahrein e della Gìordania e, più recentemente, della Turchia. Come Movimento Europeo lanciammo nella primavera del 2011 il progetto di una Comunità Euro-mediterranea (MED-EU) che ha suscitato interesse e discussioni al Forum Sociale Mondiale di Tunisi dello scorso marzo ma che si è scontrato con il silenzio assordante delle diplomazie dei paesi europei ai quali ci siamo rivolti.
Che fare ora? Per fermare il massacro egiziano, evitare che esso tracimi in tutto il Medio Oriente e oltre, dove i Fratelli Mussulmani hanno forti legami, frenare i rischi di esplosioni di terrorismo internazionale e, last but not least, tenere viva la fiammella accesa da quelli che credono ancora che la democrazia possa essere compatibile con l’Islam e che l’Islam possa vivere in società tendenzialmente “laiche” dove sia possibile immaginare forme di separazione fra la politica e la religione.
Per quanto riguarda le richieste europee all’Egitto (al governo e all’esercito ma anche ai Fratelli Mussulmani) noi dobbiamo affermare con forza il principio del rispetto della vita umana (delle vite umane) che ha segnato lo spartiacque fra la prima metà del secolo delle guerre civili in Europa e la concezione di una comunità fondata sulla dignità umana e sull’abolizione della pena capitale (singolare e collettiva), il riconoscimento di quattro diritti umani fondamentali (il diritto di associazione, il diritto all’informazione e la libertà di espressione, l’eguaglianza fra uomo e donna- sono più della metà in Egitto le “sorelle mussulmane” – e la libertà di coscienza) e la ripresa del dialogo politico e civile. Per ottenere quest’ultimo risultato, come ha chiesto Emma Bonino, governo (speriamo) provvisorio e esercito devono rinunciare a decapitare e poi sciogliere il movimento dei Fratelli Mussulmani che resterà comunque radicato nella società egiziana.
In questo quadro e in un mondo in cui la componente spirituale assume sempre di più un carattere preminente, appare essenziale il dialogo religioso, non solo fra mussulmani e copti ma fra tutte le convinzioni. Ha ragione Andrea Riccardi (“Il Corriere della Sera”, domenica 18 agosto) quando chiede una riunione dei grandi leader religiosi ma essa non può limitarsi alle sole chiese cristiane e deve invece estendersi al mondo ebraico e mussulmano, al buddismo, al taoismo e all’induismo. In altri tempi e con le commissioni presiedute da Delors e Prodi, l’Unione europea aveva giocato un ruolo importante nel dialogo spirituale e questa dimensione è stata iscritta e per ora inapplicata nel Trattato di Lisbona. L’Unione europea può e deve promuovere rapidamente questa riunione. Il Meeting in corso a Rimini potrebbe dare un contributo di proposta in questa direzione.
Se vogliamo tuttavia che la voce europea sia ascoltata al Cairo, dobbiamo preannunciare conseguenze ben più forti di quelle, per ora minacciate, della sospensione degli aiuti economici. Se le violenze “di Stato” non saranno immediatamente interrotte e non sarà consentita la partecipazione alla vita politica delle diverse componenti della società egiziana - prevedendo elezioni generali sotto il controllo della comunità internazionale – ivi compresi i Fratelli Mussulmani, il Consiglio dell’Unione europea dovrebbe decidere su proposta dell’alto rappresentante e della Commissione europea di sospendere l’accordo di associazione fra l’UE e l’Egitto, firmato nel 2001 e entrato in vigore nel 2004, che contiene clausole e strumenti ben più ampi dei soli aiuti economici.
Infine, il Movimento Europeo pensa che l’Italia debba nuovamente farsi promotrice della convocazione di una Conferenza sulla Sicurezza e sulla Cooperazione nel Mediterraneo secondo il modello di Helsinki nelle relazioni fra Ovest e Est, un’idea avanzata agli inizi degli anni ’90 dall’allora ministro degli esteri De Michelis. Da qui potrebbe rinascere il progetto di una Comunità euro-mediterranea (MED-EU) che metta fine alla politica errata degli accordi bilaterali e affermi il principio della multilateralità nelle relazioni fra l’Europa e il Mediterraneo e nelle relazioni fra paesi mediterranei. Per far questo è essenziale tuttavia una politica estera e della sicurezza unica (single European and Security Policy) e non solo un’apparente politica estera comune avviando un processo destinato a superare il principio delle sovranità nazionali.
(L'Unità, 19 agosto 2013)