MENO PROVINCIALISMO: LA PARTECIPAZIONE STA IN EUROPA
Intervista a Pier Virgilio Dastoli
di Paola Springhetti per Reti Solidali (periodico dei centri di Servizio per il Volontariato del Lazio)
In che misura i risultati elettorali – nazionali e regionali – sono frutto di un bisogno di protesta, e in che misura sono espressione di una nuova voglia di partecipazione?
«L’Italia non è un’eccezione, da questo punto di vista. Movimenti di protesta ci sono stati in molti Paesi, anche se hanno assunto forme diverse. Penso non solo alla Grecia, ma anche al Portogallo, Romania, Bulgaria, Spagna e perfino alla Germania, dove il Piratenpartei (Partito Pirati) ha ottenuto percentuali tra il 7 e il 9% nelle ultime tornate elettorali. Certo, è una realtà molto diversa dal Movimento 5 Stelle, perché esso ha un’impronta anarchica con un leader carismatico al contrario del Piratenpartei, ma è comunque un partito-non-partito, un’espressione del malessere. È evidente che un po’ in tutti i Paesi monta la protesta nei confronti di un’Europa che si limita solo a dettare regole di rigore finanziario che peggiora le condizioni di vita. Ma nel complesso, direi che in tutto questo sono presenti entrambi gli elementi: la protesta, ma anche la volontà di partecipare.»
Una volontà di partecipazione che, però, il mondo della cittadinanza attiva non ha intercettato. Anche qui, oltre che nella protesta, ci sono aspetti di stanchezza, inefficacia, logoramento?
«Il mondo politico ha le proprie responsabilità, anche se resto convinto che, accanto alla politica cattiva, c’è anche quella buona. Ma bisogna ammettere che pure la società civile è stata al di sotto della domanda di partecipazione. Poiché il termine “società civile” è ormai abusato (basta pensare a coalizioni candidate a giocare un ruolo forte in politica che si sono auto-proclamate espressione della società civile) e forse troppo generico, preferisco parlare di mondo associativo: questo mondo ha vari difetti, a cominciare dal fatto che, essendo troppo frammentato, non riesce a costruire sinergie e a mobilitare. Da noi in Italia, ne è un esempio il Forum del Terzo settore, che non ha espresso posizioni condivise e articolate, tali da far avanzare queste nuove esigenze, portandole al livello decisionale. L’altro grande difetto è l’autoreferenzialità, che impedisce di sviluppare la capacità di portare a livello europeo le istanze di cui il mondo associativo è portatore. La verità è che l’Europa ha tanti difetti, ma la società civile non è stata capace di mobilitarsi perché fosse diversa: il Parlamento europeo sicuramente ha delle colpe perché è stato silenzioso su molte cose, ma dietro di esso non c’era una società civile che premesse.»
Il nostro mondo associativo è troppo provinciale?
«Pecchiamo di una notevole dose di provincialismo. Troppi considerano l’Europa solo come luogo dominato dalle banche e dalla finanza, e quindi si limitano a contestarla in sé e per sé, ma se poi non ci si batte per un’altra Europa, non si va da nessuna parte. In Germania o in altri Paesi c’è una dimensione culturale che va oltre gli schemi nazionali, e da noi non la vedo. Prendiamo ad esempio il tema della pace: la Tavola della Pace da anni organizza iniziative, come la marcia Perugina-Assisi. Ma le ha sempre dato un carattere solo nazionale. Come si può vincere su questi temi, lavorando solo a livello italiano?»
Questo tema della partecipazione porta a dare ragione a chi pensa che il volontariato debba riscoprire la propria dimensione di advocacy e il proprio ruolo politico.
«Anche questo è un tema che va discusso a livello europeo, dove bisogna trovare un linguaggio comune, basti pensare che nei diversi Paesi la parola “volontariato” definisce realtà diverse. Abbiamo avuto un Anno europeo ad esso dedicato, ma si è concluso senza che, a livello europeo, fossero fatti passi avanti. In Italia dobbiamo riflettere maggiormente su tematiche come il volontariato e i servizi, il volontariato e il mondo del lavoro, la protezione civile… tematiche che sono discusse anche in altri Paesi. Se vogliamo che l’Unione assuma iniziative, dobbiamo trovare i punti di incontro del volontariato dei vari Paesi. Ci sono infatti ambiti, ad esempio quello delle politiche fiscali, in cui si potrebbero prendere misure comuni.»
Negli ultimi dieci anni si sono moltiplicati i comitati che nascono spontaneamente attorno ad un problema del territorio, in genere per opporsi a qualche progetto o decisione presi da soggetti pubblici o privati. Ma un volontariato che voglia davvero contribuire a cambiare la società, rendendola più giusta, deve essere da una parte voce critica e di protesta, ma dall’altra soggetto portatore di proposte. È possibile coniugare i due aspetti?
«Abbiamo dei principi, a livello europeo, che riguardano proprio le forme di consultazione dei cittadini e che possiamo pretendere vengano rispetti. Ad esempio, la convenzione di Aarhus impegna a consultare le popolazioni sulle questioni ambientali. Un altro esempio, la Commissione europea ha lanciato una consultazione sui combustibili fossili come il gas di scisto. È un tema che ha implicazioni economiche enormi, ma anche dirompenti sul piano ambientale. Usando queste nuove tecniche, gli Stati Uniti raggiungeranno l’obiettivo dell’autonomia energetica entro il 2030, ma l’impatto ambientale sarà pesante, a causa del metodo con cui viene estratto. La consultazione della Commissione si chiude il 23 marzo e io mi chiedo: reagiranno solo le industrie energivore? In che misura gli italiani parteciperanno?»
Si potrebbe obiettare che nell’esperienza del volontariato c’è che la politica e le amministrazioni sono poco propense a tenere conto delle prese di posizione e delle proposte che vengono dalle associazioni.
«La Commissione europea lancia le consultazioni perché ha adottato un metodo, secondo il quale prima di elaborare atti normativi si acquisiscono tutti gli elementi, quindi tiene conto di quanto emerge. È evidente che il risultato delle consultazioni deve andare sui tavoli dei decisori, quindi del Parlamento Europeo, ma questo le associazioni della società civile devono rivendicarlo. Tra l’altro, in Italia dobbiamo riprendere in mano la riforma della legge elettorale europea: allo stato attuale delle cose, nessun cittadino sa chi è il proprio deputato eletto al Parlamento europeo. E invece è compito degli elettori controllare gli eletti.»
Ci sono altri strumenti per valorizzare la partecipazione?
«C’è l’anno europeo dei cittadini per il quale si è costituita in Europa una vasta alleanza e in Italia una rete promossa dal Movimento Europeo, dall’agenzia per la democrazia locale e dal Forum del Terzo Settore con precise rivendicazioni rivolte al nuovo Governo che verrà e al nuovo Parlamento. C’è il Diritto di iniziativa dei cittadini europei, una forma di partecipazione diretta, prevista dal Trattato sull'Unione. Se si mettono insieme 1 milione di cittadini di diversi Paesi, si possono presentare proposte alla Commissione. Finora ne sono state presentate oltre 20, di cui 16 sono state considerate eleggibili, per le quali è stata iniziata la raccolta delle firme. Una, ad esempio, riguarda l’acqua, altre la mobilità dei giovani, questioni ambientali, il pluralismo dei media, il roaming e così via. Poi ci sono le petizioni al Parlamento europeo e i ricorsi al Mediatore europeo, che è molto sensibile alle richieste dei cittadini riguardanti il cattivo funzionamento delle amministrazioni. E c’è lo strumento della class action: non dimentichiamo che quella adottata in Italia deriva da quella europea.»
Insomma, non resta che da rimboccarsi le maniche.
«Sappiamo che l’Europa, così com’è oggi, non basta. Per questo la società civile deve battersi perché sia più democratica. Che senso ha che combattiamo per la nostra democrazia nazionale, ma non per quella europea? Solo se l’Europa funziona meglio, possiamo chiedere che garantisca i diritti e i beni pubblici. E dobbiamo essere consapevoli che alcuni temi - come la pace e la difesa, la legalità e la lotta alla criminalità, la corruzione - gli Stati non possono risolverli da soli. Affrontiamo questi temi a livello locale, perché ci sembra di essere più concreti, ma in realtà lottiamo contro i mulini a vento, perché gli Stati non sono abbastanza competenti. Per esempio che senso ha fare la battaglia sugli F35, quando il problema è il modo in cui è pensata la difesa europea?».