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L’Europa alla prova del fuoco dove e come trovare le risorse per la ricostruzione

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Gli interventi di Giuseppe Conte al Senato e alla Camera, ieri, hanno disegnato nelle grandi linee quale sarà l’atteggiamento italiano nel difficile confronto che impegnerà domani i leader in un Consiglio europeo decisivo per la lotta all’epidemia e alle sue disastrose conseguenze economiche. Dalle parole del presidente del Consiglio italiano si è capito che il no pregiudiziale al MES è stato un po’ relativizzato e che il governo di Roma vorrà piuttosto garanzie precise sulla non condizionalità del prestito che potrebbe ricevere. Poche ore dopo che Conte aveva parlato al Senato e prima che parlasse alla Camera, garanzie del tutto esplicite sono state offerte dal presidente dell’Eurogruppo, il portoghese Centeno. Quanto all’altro capitolo, il modo in cui verrà finanziata la grande massa di risorse che dovranno essere messe a disposizione per la ricostruzione del dopo covid19, se con gli eurobond chiesti dall’Italia e da altri 8 paesi o in altro modo, anche in questo caso la giornata di ieri ha segnato qualche significativo movimento che potrebbe favorire un’intesa. È possibile che su questo capitolo venga raggiunto, al Consiglio, un accordo politico, demandando al lavoro dei tecnici la messa a punto, poi, delle procedure pratiche.

Quale sia l’oggetto del contendere nel confronto al massimo livello dei governi europei è del tutto chiaro. Da due mesi l’argomento principale nei dibattiti fra le cancellerie, nelle istituzioni europee e fra esperti è legato ad una domanda che potremmo sintetizzare in modo drammaticamente banale: chi (e come) pagherà il conto finanziario delle conseguenze della pandemia dopo la pandemia? E la questione di chi si farà carico del debito pubblico europeo o dell’insieme dei nuovi debiti pubblici nazionali che cresceranno inevitabilmente parallelamente alla decrescita del reddito europeo lordo è centrale per le decisioni che dovranno essere prese nelle prossime settimane.

Too late and too little

Too late and too little, l’Unione europea ha reagito sia dal punto di vista sanitario con decisioni frammentarie e non coordinate, ma che ora sono diventate comuni, sia dal punto finanziario. Il conto immediato della crisi sarà inevitabilmente sostenuto in buona parte dagli Stati membri con gli esborsi conseguenti ai provvedimenti adottati in queste ultime settimane. Seppure in ritardo e in modo insufficiente, l’insieme del sistema europeo ha tuttavia messo in piedi vari strumenti di intervento a breve termine che devono essere operativi al più tardi dal 1° giugno 2020. Riassumiamoli:

– Una linea di credito speciale per le imprese (200 miliardi di Euro) creata dalla Banca Europea degli Investimenti.

– Il Pandemic Emergency Purchase Programme (750 miliardi di Euro) creato dalla Banca Centrale Europea per acquistare obbligazioni pubbliche e private dei paesi membri dell’Eurozona. Questo si aggiunge ai 20 miliardi di Quantitative Easing mensili e a interventi ulteriori di 120 miliardi.

– Il nuovo strumento di sostegno temporaneo SURE per attenuare i rischi di disoccupazione in emergenza con un totale di 100 miliardi di Euro con prestiti concessi agli Stati membri a tasso agevolato, sotto forma di una specie di Cassa di integrazione europea.

Il superamento della ragion d’essere originaria del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) nato nel 2012 come “Fondo Salva Stati” con forti condizionalità macro-economiche (riduzione del debito pubblico, riforma dei sistemi pensionistici, incremento delle tasse…) verso un “Fondo per la Salute” con una linea di credito speciale dedicata agli Stati dell’Eurozona la cui unica condizionalità – da inserire in un nuovo regolamento – è quella che esse vengano usate per spese sanitarie dirette e indirette (240 miliardi di Euro). A questo proposito, però, va detto che non basta adottare un nuovo regolamento, che sarebbe legato ad un trattato intergovernativo nato come strumento provvisorio. Occorrerebbe una sua comunitarizzazione che dovrebbe essere realizzata affidandolo alla gestione della Commissione sotto il controllo del Parlamento europeo e la sua trasformazione in un Fondo Monetario Europeo (FME) o in una Cassa Depositi e Prestiti Europea (CDPE).

A questi quattro strumenti si sono aggiunti la flessibilità nelle regole sugli aiuti di Stato, la sospensione (temporanea) del Patto di Stabilità sapendo che è rimasto in piedi tutto l’armamentario degli strumenti decisi dal 2010 (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, Semestre Europeo) e la possibilità per l’Italia di usare i fondi per la coesione dopo la loro scadenza a fine 2020.

Poiché sono tutti coscienti che questo insieme di strumenti sono too little too late, Francia prima e Spagna poi hanno messo sul tavolo europeo due proposte simili per la creazione di un nuovo Fondo per la ricostruzione, con linee di credito per l’insieme dei 27 paesi membri.

Le proposte francese e spagnola

La differenza sostanziale fra la proposta francese e quella spagnola è che nel primo caso il Fondo – o meglio la linea di prestito europea – sarebbe garantito soprattutto dagli Stati membri, mentre nel secondo caso si tratterebbe di una linea di credito fondata su titoli di debito pubblico irridemibili (cioè non rimborsabili) garantiti da debito pubblico europeo e cioè dal bilancio europeo.

Al di là della differenza non marginale fra la proposta francese e quella spagnola, appare chiaro che l’idea di titoli di debito pubblico europea è stata finalmente sdoganata (in primo luogo dal Parlamento europeo nella risoluzione del 17 aprile) perché è stato sgombrato il campo dall’obiettivo indicato da Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker nel 2016 di usarli per mutualizzare i debiti pubblici pregressi nazionali che aveva – come era del tutto prevedibile – suscitato l’opposizione insormontabile dei paesi nordici. Spetta ora al Consiglio europeo di domani accendere il semaforo verde sul Fondo lasciando ai tecnici il compito di stabilirne le regole per la sua gestione chiarendo immediatamente tre punti essenziali:

– L’individuazione di uno strumento-ponte per consentire al Fondo di essere immediatamente operativo già nel corso di quest’anno in attesa di essere agganciato alla prossima programmazione finanziaria pluriennale dal 1° gennaio 2021. A questo proposito va sottolineato il fatto che, trattandosi – come si dice nel gergo comunitario – di una decisione di procedura, il Consiglio europeo può decidere a maggioranza semplice come avvenne a Milano nel 1985 per convocare la conferenza della prima revisione dei trattati di Roma e nel 1990 per avviare l’elaborazione del Trattato di Maastricht.

– Il mandato alla Commissione – dopo quello del PE il 17 aprile – per rinnovare e ampliare il Quadro Finanziario Pluriannuale che dovrà partire il 1° gennaio 2021. Sarà centrale infatti a partire da gennaio la questione delle entrate e delle spese del bilancio europeo sapendo che, se esso rimanesse incatenato alla percentuale scandalosamente irrisoria di poco più dell’1% del PIL europeo, il costo di quello che viene ormai chiamato lo European Recovery Plan. Qualcuno lo chiama Piano Marshall, ma si tratta di una definizione abusiva. Il vero Marshall Plan del 1947 riguardava infatti un intervento esterno all’Europa e negli ultimi anni ha riguardato un programma di aiuto europeo a favore dell’Africa. Questo piano inciderebbe drasticamente non solo su altre linee di bilancio “tradizionali” come la PAC (politica agricola comune) che copre attualmente il 38% delle spese europee e le più modeste linee di bilancio dell’Europa per cittadini che sono linfa vitale per le attività non profit e di volontariato ma anche per quell’altro piano che “fu” (?) al centro del programma della Commissione europea sotto il nome di European Green Deal e per cui era stato preventivato un ammontare totale di mille miliardi di Euro.

Spese aggiuntive, non sostitutive

Ecco perché il piano europeo per la ricostruzione, che sarà finanziariamente al centro del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale, dovrà  essere aggiuntivo e non sostitutivo delle spese attualmente previste in materia di PAC, di coesione economica, sociale e territoriale, di ricerca e sviluppo tecnologico, di fondo sociale europeo, di Europa dei e per i cittadini, di cultura e – last but not least – di azioni esterne come la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario insieme al sostegno per i paesi candidati all’adesione.

Per questa ragione ci vuole un ammontare complessivo di almeno 2000 miliardi di Euro finanziati attraverso risorse proprie nuove che si aggiungano a quelle esistenti (i dazi doganali, una percentuale dell’IVA, i prelievi agricoli sui prodotti che provengono al di fuori dall’Unione, le imposte sugli stipendi dei funzionari europei e dei pensionati delle istituzioni europee) ma che sostituiscano i contributi nazionali che coprono oggi la maggior parte delle entrate europee suscitando da anni lo scontro fra i contributori netti e i beneficiari.

Per far questo occorre cercare risorse provenienti da imposte che non aumentino il carico fiscale globale sui cittadini europei, che aprano la strada anzi ad un sistema fiscale europeo più progressivo (l’IVA ad esempio è per natura un’imposta regressiva), che colpiscano “mali comuni” come l’elusione fiscale, i proventi ingenti delle multinazionali del web (il cosiddetto GAFA), i patrimoni della criminalità organizzata, l’inquinamento (vale qui l’obiettivo dello “zero carbon”); per non parlare dei giochi d’azzardo – con tassazioni largamente al di sotto delle imposte sui grandi redditi – il tabacco e l’alcol.

Tassando i “mali comuni” avremo le risorse per garantire “beni comuni europei”.

Pier Virgilio Dastoli

22/04/2020

 

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