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Newsletter n.12/2021 - PILLOLE D'EUROPA

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L’Africa, il G20 e l’Unione europea

Il governo italiano ha accolto la proposta del Movimento europeo di invitare l’Unione africana al G20 in cui il vertice dei leader si riunirà a Roma il 30 e 31 ottobre.
Come abbiamo ricordato nel nostro appello al governo, il 1° gennaio è entrato in vigore il trattato dell’Unione Africana che istituisce la più vasta area di libero scambio nel mondo.
Lavoreremo con le nostre reti europee per portare il tema della cooperazione fra l’Unione europea e l’Africa in tutte le iniziative parallele al G20 intergovernativo: C20 della società civile, Y20 della gioventù, W20 della dimensione delle donne, L20 del mondo del lavoro, U20 delle città, T20 dei Think Tank, S20 della scienza oltre all’incontro Inter-religioso a Bologna promosso dal cardinale Zuppi e all’iniziativa Last 20 di cui vi daremo conto nella prossima newsletter.
Porremo in tutte queste sedi il tema dei diritti fondamentali sapendo che, in base alla presidenza a rotazione, parlerà a nome dell’Unione africana il leader egiziano che ha preso il potere con un colpo di stato militare nel 2014 imponendo un regime che viola con le violenze tutti i valori del diritto internazionale, una presidenza che rende necessario far partecipare alle riunioni preparatorie i rappresentanti di altri stati africani espressione di sistemi rispettosi dello stato di diritto.

L’UE deve fermare gli sbarchi dei richiedenti asilo dalla Libia?

La Repubblica (Alessandra Ziniti, giornalista nella redazione Cronaca) intervista la ministra Lamorgese sul tema delle migrazioni. Attiriamo la vostra attenzione su due punti che ci hanno fatto sobbalzare sulla sedia. Il primo è il titolo molto assertivo: «L’UE fermi gli sbarchi dalla Libia». Come sa chi frequenta le redazioni dei giornali i titoli non li scrive né l’intervistatore né l’intervistato(a). Ci chiediamo quali sono gli strumenti di cui disporrebbe l’UE per fermare gli sbarchi, se sulle coste libiche o sulle coste italiane. Per quel che ne sappiamo l’UE non possiede (allo stato attuale) i mezzi per rispondere positivamente, concretamente e urgentemente all’ingiunzione che, attraverso il titolo de La Repubblica, la ministra Lamorgese invia a Bruxelles. Aggiungiamo noi che, nonostante gli accordi fra le varie fazioni libiche e la visita del ministro Di Maio (che non ha visitato nel suo viaggio à Tripoli i campi dei profughi) in vista delle elezioni del 24 dicembre le condizioni di vita di chi è giunto drammaticamente in Libia sopravvivendo alla traversata del deserto del Sahara sono ancora molto al di sotto  del rispetto della dignità umana e che prima di fermare gli sbarchi bisognerebbe decidere come trasformare l’inferno dei campi di profughi in luoghi di accoglienza in attesa della eventuale concessione del diritto di asilo.
Il secondo è la domanda della intervistatrice: « L’Europa (che è un continente e non una istituzione, n.d.r.) ha fatto finora orecchie da mercante ». La ministra Lamorgese sa bene che sono i governi (molti governi) nazionali ad aver fatto orecchie da mercante e non l’UE o per l’UE la Commissione europea ma dalla risposta - molto generica - non si evince una messa a punto di chi è stato finora responsabile di questo stato di cose inaccettabile.
È un vero peccato che la ministra non abbia colto l’occasione di una lunga intervista per spiegare alle lettrici e ai lettori di Repubblica come stanno le cose…in Europa.

Lo stato delle ratifiche del NGEU

Come sanno le nostre lettrici e i nostri lettori, il destino del Recovery Plan come appare a caratteri cubitali e Bruxelles sul palazzo del Berlaymont (denominato dalla Commissione europea Next Generation EU e non Recovery Fund) è legato all’approvazione dell’aumento del massimale delle risorse proprie dall’1.2 al 2.0% del PIL globale dell’UE da parte di tutti i 27 parlamenti nazionali conformemente alla decisione assunta alla unanimità dal Consiglio UE con l’accordo del PE.

Avevamo suggerito al PE di rendere europeo il dibattito interparlamentare sull’aumento del massimale delle risorse proprie seguendo l’esempio delle assise che si svolsero a Roma nel novembre 1990 ma, nonostante l’interesse teorico di questo o quel deputato europeo e di qualche parlamento nazionale, non se ne è fatto nulla lasciando scorrere inesorabilmente il tempo delle ratifiche nazionali.

Allo stato attuale, l’accordo è stato sottoscritto da 16 parlamenti nazionali ivi compresi il Bundesrat e il Bundestag insieme all’Italia il 5 marzo: Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna. Come sapete (vi invitiamo a leggere nella newsletter dei commenti giuridici illuminanti), il Tribunale costituzionale tedesco ha intimato al Presidente della Repubblica Federale di non firmare la legge di ratifica in attesa di una decisione sul merito dello stesso tribunale a seguito dell’ennesimo ricorso euro-ostile di un gruppo di 2000 cittadini tedeschi. Secondo i tempi di Karlsruhe il Presidente dovrà attendere almeno tre mesi per firmare la legge di ratifica nell’ipotesi (probabile) che la sentenza sia favorevole all’aumento del massimale anche se ci si attende che i giudici fissino ulteriori paletti al processo di integrazione e annuncino il loro diniego all’idea di rendere perenne il debito pubblico europeo.

Non hanno ancora ratificato i parlamenti di undici paesi: Austria, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Ungheria, Irlanda, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia, Svezia sapendo che in alcuni casi come i Paesi Bassi i tempi saranno più lunghi del previsto.

Il rischio è forte che la Commissione non potrà indebitarsi sui mercati dei capitali prima del prossimo autunno e che trascorrerà dunque più di un anno da quando fu salutato come un “momento hamiltoniano” la decisione politica del Consiglio europeo del luglio 2020 in piena crisi da pandemia.

 

 

 

 

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