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Questa settimana, proponiamo in lettura un testo interessante sia per l’attinenza degli argomenti trattati al contesto attuale, sia perché, proprio in vista della programmazione futura dell’Ue, potrebbe essere oggetto di nuove revisioni. “Le politiche economiche dell'Unione Europea”  è il titolo dell’opera, scritto dal noto docente ordinario di Politica Economica presso “La Sapienza” Università di Roma, Umberto Triulzi. Dopo la prima edizione del 2010, è stato nuovamente pubblicato nel 2016 per tener conto delle notevoli turbolenze dovute alla crisi degli anni scorsi; una crisi soggetta ad un nuovo shock, attuale, per rispondere all’emergenza che si sta affrontando. Il testo può considerarsi un punto di riferimento per comprendere come ha agito nel tempo l’Unione fino a giungere alla configurazione attuale. Il processo di integrazione futura, dopo un rallentamento causato dalle crisi a cui si è assistito in questi anni, va oggi incontro all’esigenza di essere riformato e adattato ai tempi, con nuove ambizioni. Il bilancio in discussione in questa fase della programmazione, il dibattito in corso sull’opportunità di ricorrere a strumenti quali i coronabond, il MES e il piano di interventi delle istituzioni europee – in primis la BCE – rappresentano aspetti nuovi, su cui orientare il ragionamento per le future politiche economiche europee.

 

 

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Data l’attualità della questione, questa settimana portiamo all’attenzione il caso relativo all’interpretazione dell’articolo 94 della direttiva 2001/83, che disciplina l’incentivazione finanziaria a favore degli ambulatori medici in cui si prescrivono ai pazienti determinati medicinali. Su questo aspetto, la Corte di Giustizia ha emesso una sentenza, il 22 aprile 2010, che chiarisce quale sia il perimetro entro cui si applica la direttiva. Tale provvedimento è oggi interessante perché fa riferimento ai medicinali sui quali vengano divulgate informazioni da parte delle autorità pubbliche, per esempio in presenza di un’epidemia o di una pandemia. Ma veniamo ai fatti.

Il 3 luglio 2006, l’Association of the British Pharmaceutical Industry (ABPI), che riunisce 70 società farmaceutiche nazionali e internazionali attive nel Regno Unito scrisse alla Medicines and Healthcare Products Regulatory Agency (MHPR, un’agenzia esecutiva dipendente dal Department of Health (Ministero della Sanità), tra i cui compiti rientra la verifica del rispetto delle normative nazionale e dell’Unione relative alla pubblicità nonché alla promozione dei medicinali. Nella lettera in questione, l’ABPI espresse le proprie perplessità in merito ai regimi di incentivazione alla prescrizione di medicinali “specificamente designati” da parte del servizio sanitario del Regno Unito erogato su base locale. In risposta a tali perplessità, la MHPR rispose che secondo l’articolo 94 della direttiva 2001/83 tale incentivazione fosse in linea con quanto previsto dalla stessa, sostenendo che il caso riguardava delle pratiche di autorità pubbliche e che quindi ci si trovava al di fuori di un regime di natura commerciale. Da qui il ricorso della ABPI di fronte alla High Court of Justice, che, per un’intepretazione di tale articolo, rimandò la questione alla Corte di Giustizia europea. La questione pregiudiziale, nello specifico, era la seguente:

“«Se l’art. 94, n. 1, della direttiva 2001/83/CE osti a che un ente pubblico facente parte di un servizio sanitario nazionale, al fine di ridurre le spese globali per i medicinali, istituisca un regime che offre incentivi finanziari ad ambulatori medici (che a loro volta possono offrire un vantaggio finanziario al medico che effettua la prescrizione) affinché in essi venga prescritto un medicinale specificamente designato che rientri nel regime di incentivazione, ove si tratti di:

a)       un medicinale soggetto a prescrizione, diverso dal medicinale precedentemente prescritto dal medico al paziente; ovvero

b)       un medicinale soggetto a prescrizione, diverso da quello che avrebbe potuto essere prescritto al paziente se non fosse stato per il regime di incentivazione,

qualora tale medicinale diverso soggetto a prescrizione appartenga alla stessa classe terapeutica dei medicinali utilizzati per il trattamento della particolare patologia del paziente»”.

La sentenza della Corte si è basata sul riconoscimento che “quando essa è realizzata da un terzo indipendente, al di fuori di un’attività commerciale e industriale, siffatta pubblicità può nuocere alla sanità pubblica, la cui tutela costituisce l’obiettivo essenziale della direttiva 2001/83, e che, di conseguenza, la divulgazione da parte di un terzo di informazioni relative ad un medicinale, in particolare alle sue proprietà curative o profilattiche, può essere considerata come pubblicità ai sensi dell’art. 86, n. 1, di tale direttiva, anche quando tale terzo agisce di propria iniziativa e in piena autonomia, giuridica e di fatto, rispetto al produttore o al venditore di un tale medicinale (sentenza 2 aprile 2009, causa C‑421/07, Damgaard, Racc. pag. I‑2629, punti 22 e 29).

Tuttavia, un ragionamento siffatto non può essere trasposto ai casi di informazioni relative ad un medicinale divulgate dalle stesse autorità pubbliche, ad esempio in presenza di un’epidemia o di una pandemia.

Quindi, secondo la Corte, l’art. 94, n. 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 novembre 2001, 2001/83/CE, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004, 2004/27/CE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a regimi di incentivi finanziari, […] istituiti dalle autorità nazionali responsabili della sanità pubblica per ridurre le loro spese in materia e diretti a favorire, ai fini del trattamento di talune patologie, la prescrizione, da parte dei medici, di medicinali specificamente designati contenenti un principio attivo diverso da quello del medicinale che era prescritto in precedenza o che avrebbe potuto esserlo in assenza di un siffatto regime di incentivi”.

Per leggere il testo integrale della sentenza, clicca qui.

 

 

 

 

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Secondo l’articolo 8 della Carta, la protezione dei dati di carattere personale è un diritto di ogni inviduo. Volendo fissare il principio da applicare per il trattamento degli stessi, viene menzionato quello della “lealtà”. Ovviamente, ci si riferisce qui solo ad uno dei possibili criteri guida, che comunque secondo i 62 membri della Convenzione che ebbe il compito di elaborare la Carta, sintetizza bene come ci si debba comportare quando si trattino i dati di terze persone. Ve ne sono altri, trattati in altra sede: per esempio, l’articolo 5 del GDPR menziona la liceità, correttezza e trasparenza, la limitazione della finalità, la minimizzazione dei dati, l’esattezza, la limitazione della conservazione, l’integrità e riservatezza. Sono aspetti che comunque vengono ripresi dalla Carta, anche senza essere menzionati come principi. Infatti, l’articolo 8 afferma che il trattamento deve avvenire “per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge”, richiamando con tale affermazione i principi di liceità, correttezza e trasparenza. Vengono altresì richiamati “il diritto di poter accedere ai dati raccolti […] e di ottenerne la rettifica”. In effetti, scorrendo il contenuto di questo articolo, si potrà notare che in poche parole fa riferimento ad una pluralità di aspetti, in quanto diritto con varie sfaccettature. Essendo una materia delicata, il rispetto di tale diritto non si fonda sulla semplice esistenza della Carta, ma, proprio ai sensi dell’articolo 8, “è soggetto al controllo di un’autorità indipendente”.

Quello del trattamento dei dati personali è un tema di grande attualità oggi, in epoca di coronavirus, anche perché solleva tutta una serie di interrogativi. Per esempio: qual è il confine esistente tra il rispetto della persona e il trattamento dei suoi dati in ambito sanitario? La questione non si può risolvere con riferimento esclusivo ai diritti dell’individuo, perché il diritto alla salute è un diritto di tutti i cittadini ed è anche un dovere quello di curarsi, affinché non venga compromesso il benessere di chi si ha vicino. Al tempo stesso, è stato osservato che la questione della lotta alla pandemia può avere implicazioni anche permanenti sul già complesso settore della tutela dei dati personali. Quali effetti può avere, per esempio, il  fatto di sapere che un’Autorità centrale possiede i dati di tutti gli individui? Che cosa succederebbe se, con un’applicazione sul proprio smartphone, si potesse essere informati che c’è un soggetto infetto nelle vicinanze? Se fosse il proprio vicino di casa, quali provvedimenti prenderebbe il condominio in cui abita? Come fare per tutelare i soggetti marginali della società, che già stanno pagando un prezzo consistente per questa crisi, dal rischio di un peggioramento della propria situazione? Come si può notare, si tratta di questioni che in sé, così come anche lo stesso diritto fondamentale dell’articolo 8 della Carta, richiedono di essere affrontate nei dettagli. Si dovrebbe infatti poter conciliare la tutela dei dati personali con modalità operative che prevedono una loro conoscenza approfondita e la comunicazione dei dati sanitari a terzi, se necessario. Tuttavia, nonostante lo stesso GDPR abbia affrontato la questione affermando il principio generale secondo cui, in questi casi, i dati sanitari possano essere trattati per finalità connesse alla tutela della salute, il tema rimane vasto e complesso.

 

 

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"Le risorse per ripartire ci sono: subito progetti per il paese, anziché litigi ideologici"  è un saggio a cura di economisti del calibro di Carlo Bastasin, Lorenzo Bini Smaghi, Marcello Messori, Stefano Micossi, Pier Carlo Padoan, Franco Passacantando, Gianni Toniolo. Si rivela interessante per una serie di informazioni relative alle risorse stanziate dall’Ue all’Italia e dei programmi per ripartire con dei prestiti vantaggiosi. Le conclusioni degli autori sono incoraggianti: "L’Italia può disporre di risorse adeguate ad affrontare l’emergenza, impostare il riavvio dell’attività economica e avviare gli investimenti ‘trasformativi’ necessari nel nuovo mondo post-crisi, purché abbandoni polemiche pretestuose che ci indeboliscono in Europa e impediscono di utilizzare le risorse disponibili in Italia".

Ricordiamo il duplice intervento, prima della BCE, il 19 marzo, con 750 miliardi e poi, tra l’8 e il 9 aprile, con i piani SURE, BEI e il MES. Gli impegni in acquisti di titoli di stato italiani da parte della BCE possono essere infatti qualificati, secondo il prof. Fabio Colasanti, già Direttore al Bilancio della Commissione Europea, in circa 180 miliardi di euro; “il nostro paese potrebbe far fronte a tutti i suoi bisogni già decisi o prevedibili con le risorse (trasferimenti e prestiti) messe a disposizione dalle altre istituzioni europee e in aggiunta potrebbe disporre del paracadute offerto dalla BCE che prevede interventi che vanno bel al di là del probabile indebitamento aggiuntivo”, sostiene Colasanti.

Per leggere il saggio, clicca qui.

 

 

 

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