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15-21 June 2020

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Questa settimana proponiamo alla vostra attenzione il testo “Il referendum Brexit e le sue ricadute costituzionali”, del 2017, a cura del Prof. Claudio Martinelli, docente associato di Diritto pubblico comparato presso l’Università Milano Bicocca.  È lui stesso in un’intervista realizzata per l’occasione a parlarci di come è stato concepito. Proponiamo qui una sintesi di quanto detto con il docente che, ricordiamo, scrive su “Il Sole 24 Ore” e rimanda per ulteriori approfondimenti sul tema anche ai suoi saggi gratuitamente reperibili su “Osservatorio Costituzionale”:

“L’idea del libro nasce immediatamente dopo il referendum. All’inizio di luglio, ho organizzato un seminario con alcuni colleghi, presso il mio Ateneo, per commentare quanto accaduto; da lì è nato il progetto, ho coagulato intorno a me un gruppo di autori già esperti sul Regno Unito. Non potevamo prevedere il futuro ma abbiamo fissato una serie di tematiche interessanti, per capire sia i presupposti storico – giuridici del referendum, sia il referendum stesso, sia le prospettive future, con particolare attenzione sia alla forma di Stato, sia alla garanzia dei diritti individuali. Il mio saggio è trasversale, affronta quindi tutte le tematiche poi trattate singolarmente dai vari autori”.

Quali sono state le ricadute costituzionali della Brexit?

“Nel Regno Unito non ci possono essere riforme costituzionali come le intendiamo noi, perché è un altro ordinamento. Ciò non toglie che ci siano state notevolissime conseguenze costituzionali, per esempio con riferimento alle sentenze della Corte suprema. Ce ne sono due in particolare: la sentenza Miller, del 24 gennaio 2017 e la sentenza Cherry / Miller no. 2, del 24 settembre 2019, al cui interno la Corte scrive praticamente due trattati di diritto costituzionale britannico; sono quindi sentenze estremamente importanti. In questi quattro anni, poi sono successe talmente tante cose, sia a livello costituzionale, che di rapporti con l’Ue, che si può dire che la vicenda ha monopolizzato tutto il dibattito pubblico britannico e ha avuto così tante conseguenze profondissime come forse mai era accaduto dal dopoguerra ad oggi ad un’unica vicenda”.

Per esempio?

“Si tratta di conseguenze sulla intepretazione della Costituzione britannica; per esempio, quando si trattava di attivare l’articolo 50 del TUE, sul recesso dall’Ue, per applicare il risultato del referendum, il Governo pensava di emenare un suo atto, senza passare per il Parlamento. Nel frattempo, tuttavia, erano state attivate delle cause presso le Corti britanniche, poi sfociate nella sentenza della Corte suprema che ha sancito che il Governo, per attivare l’articolo 50, aveva bisogno di un’autorizzazione derivante da una legge del Parlamento. Secondo la Corte, questa vicenda non era meramente di relazioni internazionali, perché l’atto con cui il Regno Unito era entrato nel 1972 nelle Comunità europee comportava la nascita di alcuni diritti in capo ai cittadini. Siccome rappresentante dei cittadini è il Parlamento, è con una sua legge che deve autorizzare il Governo a portare all’uscita dello Uk dall’Ue. Questa sentenza è stata sancita con 8 voti a favore e 3 contrari; vi è stata la dissenting opinion di Lord Reed, che mi trova d’accordo, secondo cui non sarebbe l’attivazione dell’articolo 50 a porre una minaccia per i diritti dei cittadini inglesi, ma caso mai saranno i negoziati per la Brexit a farlo; a suo parere, l’attivazione dell’art. 50 poteva essere fatta dal Governo”.

Cosa rimane oggi di quel negoziato?

“Il negoziato è durato dal febbraio 2017 al gennaio 2020, con il Brexit Day. In realtà si era chiuso già a ottobre, con il withdrawal agreement, ed è stato durissimo, ma si è chiuso. Adesso sono ricominciati i negoziati per gli accordi di buon vicinato; ci sono dei punti molto discussi ma ormai si tratta di capire quali saranno i termini. Si avrà un transition period fino al 31 dicembre 2020 e ci potrà essere una proroga fino al 1° luglio 2021. Ci sono numerosi punti controversi, perché ciascuna delle parti vuole minimizzare gli svantaggi di questo divorzio. Dal mio punto di vista, la vicenda ha messo a dura prova la tenuta della British Constitution e delle procedure parlamentari – si può notare per esempio quanto sia emersa la figura dello speaker della Camera dei Comuni John Bercow – questo perché la Brexit ha avuto un impatto molto forte sui lavori parlamentari. Si pensi ai rapporti tra Parlamento e Governo, per esempio nel settembre 2019, quando si ebbe la prorogation di Johnson per evitare che il Parlamento legiferasse sul fatto che lui dovesse essere costretto a chiudere un accordo con l’Ue e a evitare il cosiddetto no deal”.

La Brexit, un primo caso nella storia dell’Ue di fuoriuscita di uno Stato membro, non sarebbe stata possibile senza l’art. 50, introdotto con il Trattato di Lisbona …

“Il problema dell’art. 50 è che era stato inserito per premunirsi nei confronti di alcuni Stati membri dell’Est, per poterne consentire la fuoriuscita laddove non tenessero il passo. Non si sarebbe mai immaginato, apparentemente, che invece venisse utilizzato da uno dei Paesi più grandi dell’Ue. Però è anche da considerare che il Regno Unito è sempre stato con un piede dentro ed uno fuori dall’Unione”.

 

 

 

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Con riferimento allo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, portiamo alla vostra attenzione il caso che ha visto l’interazione tra la magistratura nazionale di uno Stato membro e quella della Corte di Giustizia Europea, per fornire dei chiarimenti interpretativi sulla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri e sull’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali, in cui si afferma che “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza”. Il protagonista della vicenda “è un cittadino britannico residente in Spagna, sospettato di aver partecipato, quale membro di spicco di un’organizzazione criminale, all’importazione, alla distribuzione e alla vendita di droghe pesanti, in particolare di 300 kg di cocaina. Per un simile reato, la pena massima prevista dal diritto del Regno Unito è l’ergastolo”. L’arresto è avvenuto nei Paesi Bassi il 4 aprile 2018. A seguito di ciò, l’interessato “ha chiesto la sospensione della sua custodia con decorrenza dal 4 luglio 2018, data in cui sarebbero trascorsi 90 giorni dal suo arresto”. Tale istanza ha fatto sorgere alcuni dubbi interpretativi per il giudice del rinvio, relativi alla concedibilità o meno di tale sospensione. Si sono infatti verificati altri casi, come quello della sentenza del 16 luglio 2015, Lanigan, richiamata come precedente, secondo cui vi sono “obblighi che incombono, in forza di disposizioni del diritto primario dell’Unione, sul giudice investito di una domanda di esecuzione di un mandato d’arresto europeo, tra cui in particolare l’obbligo, quale giudice di ultima istanza in questo tipo di cause, di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale, qualora la risposta a tale domanda sia necessaria per emettere la sua decisione, e di sospendere il procedimento per quanto riguarda la consegna se esiste un rischio concreto di trattamento inumano o degradante nei confronti del ricercato nello Stato membro emittente, ai sensi della sentenza del 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldărar”. E inoltre: il mantenimento della custodia a fini di consegna in un caso del genere è contrario all’articolo 6 della Carta, in particolare al principio della certezza del diritto? Nel testo della sentenza si può notare come questi dubbi abbiano portato a valutazioni differenti del giudice del rinvio del Tribunale di Amsterdam e della Corte d’appello di Amsterdam, per la cui risoluzione il primo ha invocato la CGUE, in particolare ponendo due quesiti relativi all’interpretazione rispettivamente dell’articolo 17 della decisione quadro 2002/584 e dell’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali. Entrambi i quesiti vertevano su aspetti differenti della sospensione, dopo 90 giorni, della pena detentiva per il soggetto arrestato di cui si è detto. La Corte di Giustizia dell’Ue ha fornito i chiarimenti richiesti con sentenza del 12 febbraio 2019, reperibile cliccando qui.

 

 

 

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Questa settimana abbiamo scelto di focalizzarci sull’articolo 45 della Carta, che stabilisce la libertà di circolazione e di soggiorno. Lo facciamo perché, volendo ragionare sulla Brexit, ci è sembrato uno dei primi diritti venuti meno per i cittadini britannici a seguito della volontà del Regno Unito di uscire dall’Unione europea. I diritti riconosciuti ai cittadini europei in questo articolo possono essere compresi con una certa facilità: afferma infatti il primo comma che “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”. Inoltre, la portata di questo riconoscimento non si limita ai soli europei, perché il secondo comma aggiunge un ulteriore aspetto meno noto rispetto a quello affermato nel primo, cioè che “La libertà di circolazione e di soggiorno può essere accordata, conformemente al trattato che istituisce l’Unione europea, ai cittadini dei paesi terzi che risiedono legalmente nel territorio di uno Stato membro”. L’esame della Carta si rivela quindi utile a mettere in risalto come i principi di unità nella diversità dell’Europa abbiano la tendenza ad essere estesi a quelli del cittadino globale. È attraverso il riconoscimento così ampio di diritti che emerge l’intento di aprirsi al mondo da parte dei popoli europei ed oggi, le scelte perseguite per il contrasto del coronavirus, con la prospettiva di un nuovo, ambizioso bilancio e di una rinnovata attenzione al tema della cooperazione globale sembrano voler richiamare proprio questo senso di apertura, di capacità di dialogo e di collaborazione reciproca estesa al mondo intero.

 

 

 

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