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Come si è detto nell’editoriale di questa settimana, è possibile leggere e aderire all’appello al Governo Italiano, alla Commissione europea, al Consiglio europeo ed al Parlamento europeo per l’adozione dei necessari, non più rinviabili provvedimenti urgenti ed idonei ad arrestare le stragi di esseri umani nel Mediterraneo. Tra i suoi firmatari, il responsabile del Movimento europeo per la Puglia, Alberto Maritati, e il Presidente del Movimento europeo – Italia, Pier Virgilio Dastoli.
Vi suggeriamo anche questa lettera diffusa dall’Agorà degli abitanti della Terra in occasione della sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite prevista per i prossimi 3 e 4 dicembre; il suo obiettivo è quello di porre l’attenzione sul fatto che sarà un’occasione per “definire e attuare azioni congiunte a livello globale per combattere la pandemia al fine di garantire il diritto alla vita e alla salute a tutti gli abitanti della Terra. Come ha scritto il presidente dell'Assemblea generale dell'Onu nella sua lettera di convocazione: "Non dimentichiamo che nessuno di noi è al sicuro, finché non siamo tutti al sicuro". Ci sono dieci giorni di tempo per aderire a questa iniziativa.
Vi segnaliamo infine che il Movimento politico paneuropeo “Meet Volt Europa” ha organizzato un incontro, previsto per il prossimo 22 novembre, per conoscere Volt e saperne di più sulle azioni messe in atto da tale organizzazione per plasmare il futuro dell'Europa; si intende così iniziare una serie di incontri mensili, ogni 22 del mese. L’appello lanciato è “Creiamo insieme un'Europa unita e forte” e siete tutti invitati a condividere idee e pensieri sull’argomento. In tale occasione, interverrà il Presidente Dastoli.
“La disperazione – aveva scritto Giacomo Leopardi ne Lo Zibaldone – non sussisterebbe senza la speranza e l’uomo non dispererebbe se non sperasse”.
Quelle migliaia di uomini ma soprattutto donne e bambini che, dalla fine degli anni ottanta, partono dalle coste del Mediterraneo meridionale per sbarcare in Europa sono spinti dalla disperazione provocata dalla fame, dalle guerre come quelle in Iraq, Siria e in Afghanistan, dai conflitti tribali, dall’espropriazione delle terre (land grabbing), dai crescenti disastri ambientali, dalle persistenti epidemie, dalla assoluta mancanza di ogni forma di beni che rendano la vita degna di essere vissuta.
Questa disperazione è anche l’effetto delle politiche dei paesi sviluppati nell’Africa sub-sahariana e delle non-politiche in particolare dell’Unione europea che non ha esercitato il ruolo che le è stato assegnato dal Trattato di Lisbona quando afferma (art. 2 TUE) che essa “contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile del pianeta, alla solidarietà e al rispetto reciproco fra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla protezione dei diritti dell’uomo, IN PARTICOLARE QUELLI DELL’INFANZIA, così come allo stretto rispetto e allo sviluppo del diritto internazionale e in particolare al rispetto della Carta delle Nazioni Unite”.
Nell’Africa sub-sahariana la stagione dello sviluppo di sistemi democratici che avrebbe dovuto caratterizzare i paesi che avevano ottenuto l’indipendenza alla fine degli anni ’60 si è fermata di fronte alla perennizzazione dei regimi ed è ripresa poi molto debolmente negli anni ‘90 con la fine della Guerra Fredda e in limitatissimi casi da spinte interne poiché la cosiddetta primavera araba non ha varcato il Sahara verso Sud.
Sul piano formale si valuta che il 40% dei paesi dell’Africa sub-sahariana hanno introdotto standard minimi di democrazia con elezioni multipartitiche ma l’alternanza al potere è cosa rarissima, il rischio di colpi di Stato è sempre presente così come l’esplosione di sanguinosi conflitti interni anche in regimi che apparivano avviati verso una pacificazione duratura (l’Etiopia e il Corno d’Africa).
Da questa disperazione assoluta nasce la speranza di poter essere nutriti, di sfuggire alle persecuzioni, di ritrovare delle terre da coltivare, di vivere in un ambiente sano e di usufruire di un’abitazione dignitosa offrendo ai figli delle prospettive di educazione e di formazione che mancano nei paesi di origine.
Dalla fine degli anni ottanta il fenomeno dei flussi migratori per mare di chi fugge dalla disperazione è aumentato parallelamente alla progressiva chiusura delle frontiere europee, talvolta per l’adozione di leggi nazionali che hanno ridotto drasticamente la possibilità di ottenere dei visti di ingresso ma più spesso per l’adozione di misure repressive di polizia e militari in piena violazione delle convenzioni internazionali.
Come sappiamo e come è confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, i flussi migratori che hanno raggiuto via mare in questi trenta anni soprattutto Malta, la Spagna, la Grecia e l’Italia, e solo in piccola parte la Francia e Cipro, in quanto paesi di primo approdo sono composti nello stesso tempo da richiedenti asilo e dai cosiddetti migranti economici che sono poi coloro che fuggono dalla fame, dall’espropriazione delle terre e dai disastri ambientali.
Ad essi si erano aggiunti coloro che si erano incamminati lungo le rotte balcaniche prima che l’Unione europea sottoscrivesse, su richiesta tedesca, un accordo-capestro con la Turchia di Erdogan.
Secondo le analisi convergenti delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative questi flussi migratori rappresentano la minima parte di chi entra in Europa (o più in generale nei paesi più sviluppati nel mondo) provenendo dai paesi sottosviluppati o in via di lentissimo sviluppo mentre la maggioranza appartengono ai cosiddetti overstayers che entrano con un permesso di lavoro temporaneo o un visto turistico o per un periodo di studio unendosi poi al vasto mondo degli immigrati irregolari, da non confondere con i clandestini o gli illegali, che in mancanza di politiche di inclusione adeguate cadono spesso preda della criminalità organizzata.
E’ praticamente impossibile valutare quanti uomini, donne e bambini abbiano perso la vita nel Mediterraneo dalla fine degli anni ’80 ad oggi, vittime della mafia che gestisce la tratta degli esseri umani e della violazione di quel principio fondamentale del diritto di soccorso che è stato recentemente ricordato da Luigi Ferrajoli e Luigi Manconi e su cui è stato creato un comitato italiano composto da Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Paola Gaeta, Federica Resta, Armando Spataro, Sandro Veronesi, Vladimiro Zagrebelsky oltre che da Ferrajoli e Manconi su iniziativa di Sea Watch, Open Arms, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, SOS Méditerranée, Emergency e Rest chiamato a svolgere una funzione di “tutela morale” delle attività di salvataggio e difesa giuridica delle buone ragioni.
Anche partendo dalla proposta di petizione al Parlamento europeo promossa dal Movimento europeo – coordinamento Puglia e da varie organizzazioni non governative che invitiamo a sottoscrivere inviando le adesioni a Alberto Maritati, noi proponiamo
di europeizzare il Comitato italiano per il diritto al soccorso chiedendo di inserire il principio, giuridicamente vincolante, nel Migration Pact proposto dalla Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio dell’Unione a fine settembre nella riforma del regolamento di Dublino, prevedendo nello stesso tempo la comunitarizzazione dei corridoi umanitari a cui ha fatto riferimento la presidente von der Leyen nel discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre 2020
di modificare e ampliare le competenze dell’agenzia Frontex affidandole i compiti che erano stati attribuiti dal Governo Letta all’operazione Mare Nostrum dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e usando le possibilità offerte dalla Agenzia per la Difesa, dai progetti collaborativi all’interno della PESCO e dai gruppi tattici dell’UE laddove essi possono essere messi a disposizione dell’Agenzia Frontex con la missione di offrire soccorso in mare sulla base della Convenzioni internazionali (Ginevra e Amburgo) ed europee (Carta dei diritti dell’UE) insieme alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza
di porre all’ordine del giorno del Vertice sociale di Porto sotto presidenza portoghese (maggio 2021) la questione dell’accoglienza e dell’inclusione dei cosiddetti migranti economici
di iscrivere nell’agenda della Conferenza sul futuro dell’Europa la ripartizione delle competenze fra Stati membri, poteri locali e regionali da una parte e Unione europea dall’altra sul tema delle politiche migratorie sottraendole al Titolo V relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia e collocandole in un titolo ad esse specificamente dedicato nella quinta parte del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea dedicata all’azione esterna dell’Unione all’interno della quale prevedere di affidare alle delegazioni dell’Unione europea presso i paesi terzi il compito di esaminare le domande dei richiedenti asilo.
La disperazione e la speranza Che fare dopo la morte di Yusuf Alì Kanneh
“La disperazione – aveva scritto Giacomo Leopardi ne Lo Zibaldone – non sussisterebbe senza la speranza e l’uomo non dispererebbe se non sperasse”.
Quelle migliaia di uomini ma soprattutto donne e bambini che, dalla fine degli anni ottanta, partono dalle coste del Mediterraneo meridionale per sbarcare in Europa sono spinti dalla disperazione provocata dalla fame, dalle guerre come quelle in Iraq, Siria e in Afghanistan, dai conflitti tribali, dall’espropriazione delle terre (land grabbing), dai crescenti disastri ambientali, dalle persistenti epidemie, dalla assoluta mancanza di ogni forma di beni che rendano la vita degna di essere vissuta.
Questa disperazione è anche l’effetto delle politiche dei paesi sviluppati nell’Africa sub-sahariana e delle non-politiche in particolare dell’Unione europea che non ha esercitato il ruolo che le è stato assegnato dal Trattato di Lisbona quando afferma (art. 2 TUE) che essa “contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile del pianeta, alla solidarietà e al rispetto reciproco fra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla protezione dei diritti dell’uomo, IN PARTICOLARE QUELLI DELL’INFANZIA, così come allo stretto rispetto e allo sviluppo del diritto internazionale e in particolare al rispetto della Carta delle Nazioni Unite”.
Nell’Africa sub-sahariana la stagione dello sviluppo di sistemi democratici che avrebbe dovuto caratterizzare i paesi che avevano ottenuto l’indipendenza alla fine degli anni ’60 si è fermata di fronte alla perennizzazione dei regimi ed è ripresa poi molto debolmente negli anni ‘90 con la fine della Guerra Fredda e in limitatissimi casi da spinte interne poiché la cosiddetta primavera araba non ha varcato il Sahara verso Sud.
Sul piano formale si valuta che il 40% dei paesi dell’Africa sub-sahariana hanno introdotto standard minimi di democrazia con elezioni multipartitiche ma l’alternanza al potere è cosa rarissima, il rischio di colpi di Stato è sempre presente così come l’esplosione di sanguinosi conflitti interni anche in regimi che apparivano avviati verso una pacificazione duratura (l’Etiopia e il Corno d’Africa).
Da questa disperazione assoluta nasce la speranza di poter essere nutriti, di sfuggire alle persecuzioni, di ritrovare delle terre da coltivare, di vivere in un ambiente sano e di usufruire di un’abitazione dignitosa offrendo ai figli delle prospettive di educazione e di formazione che mancano nei paesi di origine.
Dalla fine degli anni ottanta il fenomeno dei flussi migratori per mare di chi fugge dalla disperazione è aumentato parallelamente alla progressiva chiusura delle frontiere europee, talvolta per l’adozione di leggi nazionali che hanno ridotto drasticamente la possibilità di ottenere dei visti di ingresso ma più spesso per l’adozione di misure repressive di polizia e militari in piena violazione delle convenzioni internazionali.
Come sappiamo e come è confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, i flussi migratori che hanno raggiuto via mare in questi trenta anni soprattutto Malta, la Spagna, la Grecia e l’Italia, e solo in piccola parte la Francia e Cipro, in quanto paesi di primo approdo sono composti nello stesso tempo da richiedenti asilo e dai cosiddetti migranti economici che sono poi coloro che fuggono dalla fame, dall’espropriazione delle terre e dai disastri ambientali.
Ad essi si erano aggiunti coloro che si erano incamminati lungo le rotte balcaniche prima che l’Unione europea sottoscrivesse, su richiesta tedesca, un accordo-capestro con la Turchia di Erdogan.
Secondo le analisi convergenti delle agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative questi flussi migratori rappresentano la minima parte di chi entra in Europa (o più in generale nei paesi più sviluppati nel mondo) provenendo dai paesi sottosviluppati o in via di lentissimo sviluppo mentre la maggioranza appartengono ai cosiddetti overstayers che entrano con un permesso di lavoro temporaneo o un visto turistico o per un periodo di studio unendosi poi al vasto mondo degli immigrati irregolari, da non confondere con i clandestini o gli illegali, che in mancanza di politiche di inclusione adeguate cadono spesso preda della criminalità organizzata.
E’ praticamente impossibile valutare quanti uomini, donne e bambini abbiano perso la vita nel Mediterraneo dalla fine degli anni ’80 ad oggi, vittime della mafia che gestisce la tratta degli esseri umani e della violazione di quel principio fondamentale del diritto di soccorso che è stato recentemente ricordato da Luigi Ferrajoli e Luigi Manconi e su cui è stato creato un comitato italiano composto da Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Paola Gaeta, Federica Resta, Armando Spataro, Sandro Veronesi, Vladimiro Zagrebelsky oltre che da Ferrajoli e Manconi su iniziativa di Sea Watch, Open Arms, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, SOS Méditerranée, Emergency e Rest chiamato a svolgere una funzione di “tutela morale” delle attività di salvataggio e difesa giuridica delle buone ragioni.
Anche partendo dalla proposta di petizione al Parlamento europeo promossa dal Movimento europeo – coordinamento Puglia e da varie organizzazioni non governative che invitiamo a sottoscrivere inviando le adesioni a Alberto Maritati, noi proponiamo
di europeizzare il Comitato italiano per il diritto al soccorso chiedendo di inserire il principio, giuridicamente vincolante, nel Migration Pact proposto dalla Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio dell’Unione a fine settembre nella riforma del regolamento di Dublino, prevedendo nello stesso tempo la comunitarizzazione dei corridoi umanitari a cui ha fatto riferimento la presidente von der Leyen nel discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre 2020
di modificare e ampliare le competenze dell’agenzia Frontex affidandole i compiti che erano stati attribuiti dal Governo Letta all’operazione Mare Nostrum dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e usando le possibilità offerte dalla Agenzia per la Difesa, dai progetti collaborativi all’interno della PESCO e dai gruppi tattici dell’UE laddove essi possono essere messi a disposizione dell’Agenzia Frontex con la missione di offrire soccorso in mare sulla base della Convenzioni internazionali (Ginevra e Amburgo) ed europee (Carta dei diritti dell’UE) insieme alla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza
di porre all’ordine del giorno del Vertice sociale di Porto sotto presidenza portoghese (maggio 2021) la questione dell’accoglienza e dell’inclusione dei cosiddetti migranti economici
di iscrivere nell’agenda della Conferenza sul futuro dell’Europa la ripartizione delle competenze fra Stati membri, poteri locali e regionali da una parte e Unione europea dall’altra sul tema delle politiche migratorie sottraendole al Titolo V relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia e collocandole in un titolo ad esse specificamente dedicato nella quinta parte del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea dedicata all’azione esterna dell’Unione all’interno della quale prevedere di affidare alle delegazioni dell’Unione europea presso i paesi terzi il compito di esaminare le domande dei richiedenti asilo.
Attiriamo la vostra attenzione
Come si è detto nell’editoriale di questa settimana, è possibile leggere e aderire all’appello al Governo Italiano, alla Commissione europea, al Consiglio europeo ed al Parlamento europeo per l’adozione dei necessari, non più rinviabili provvedimenti urgenti ed idonei ad arrestare le stragi di esseri umani nel Mediterraneo. Tra i suoi firmatari, il responsabile del Movimento europeo per la Puglia, Alberto Maritati, e il Presidente del Movimento europeo – Italia, Pier Virgilio Dastoli.
Vi suggeriamo anche questa lettera diffusa dall’Agorà degli abitanti della Terra in occasione della sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite prevista per i prossimi 3 e 4 dicembre; il suo obiettivo è quello di porre l’attenzione sul fatto che sarà un’occasione per “definire e attuare azioni congiunte a livello globale per combattere la pandemia al fine di garantire il diritto alla vita e alla salute a tutti gli abitanti della Terra. Come ha scritto il presidente dell'Assemblea generale dell'Onu nella sua lettera di convocazione: "Non dimentichiamo che nessuno di noi è al sicuro, finché non siamo tutti al sicuro". Ci sono dieci giorni di tempo per aderire a questa iniziativa.
Vi segnaliamo infine che il Movimento politico paneuropeo “Meet Volt Europa” ha organizzato un incontro, previsto per il prossimo 22 novembre, per conoscere Volt e saperne di più sulle azioni messe in atto da tale organizzazione per plasmare il futuro dell'Europa; si intende così iniziare una serie di incontri mensili, ogni 22 del mese. L’appello lanciato è “Creiamo insieme un'Europa unita e forte” e siete tutti invitati a condividere idee e pensieri sull’argomento. In tale occasione, interverrà il Presidente Dastoli.
Ci siamo già occupati del fenomeno migratorio, in settembre, con la newsletter n. 30 intitolata "Immigrazione e asilo, le inadeguatezze europee". Ritorniamo ora sul tema, a fronte di una nuova prova delle carenze esistenti nella risposta europea al problema. E’ necessaria e urgente una maggiore coesione nel superamento del principio secondo cui la responsabilità della prima accoglienza spetta al Paese di “primo sbarco”, come afferma il regolamento di Dublino. L’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali di cui ci occupiamo questa settimana, ci ricorda peraltro che esistono altre fonti di riferimento sul diritto di asilo: esso infatti, come afferma l’unico comma dell’articolo, “è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato che istituisce la Comunità europea”. Per esempio, l’articolo 80 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue afferma, evidentemente in contraddizione con quanto stabilito a Dublino, che “le politiche dell'Unione di cui al presente capo e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.Ogniqualvolta necessario, gli atti dell'Unione adottati in virtù del presente capo contengono misure appropriate ai fini dell'applicazione di tale principio”.
Appare evidente il carattere paradossale del regolamento di Dublino, perché il principio del Paese di “primo sbarco” oltre ad essere in contraddizione con i valori europei, è evidentemente incompatibile anche con quanto afferma una fonte primaria del diritto dell’Ue. Se poi si indaga sull’approccio adottato nei confronti dell’immigrazione, sembrerebbe che l’orientamento istituzionale di questi tempi sia stato più guidato da logiche minuziose che distinguono il richiedente asilo dal migrante economico, l’apolide dall’extra-comunitario, il rifugiato dal clandestino e che si soffermano sulla situazione specifica dell’eco-profugo; e che, tuttavia, nel porre dei distinguo e nell’adottare in base alla casistica una strategia differente, rischiano di perdere di vista i principi e i valori fondanti di una Unione che, per dirsi davvero tale, in coerenza specialmente con il principio della solidarietà, vede dinnanzi a sé la necessità di riformare le sue modalità di azione, per poter dimostrare una coerenza, rispetto a tali principi, molto più rispetto a quanto non si sia fatto finora.
La giurisprudenza europea
Quali meccanismi si attivano per il riconoscimento dello status di rifugiato? A quali strumenti si ricorre? La conoscenza di molti testi non basterebbe a sintetizzare un tema che emerge in tutta la sua complessità e che anzi avrebbe bisogno di una strategia che forse semplifichi l’approccio al problema e punti su una maggiore coesione europea. A testimonianza di quale possa essere il ruolo della Corte di Giustizia dell’Unione europea, questa settimana Vi proponiamo un caso che è stato recentemente affrontato; si tratta infatti di una sentenza del 25 giugno 2020, che ha trattato la vicenda di VL, cittadino di origine del Mali, che il 12 dicembre 2019 si trovava, assieme ad altre 44 persone, a bordo di un’imbarcazione intercettata nei pressi delle coste spagnole.
Dopo essere stati soccorsi, sbarcati sulla banchina a sud dell’isola di Gran Canaria e aver ricevuto le prime cure, il caso di VL è rientrato, il 14 dicembre 2019, tra quelli di competenza del giudice istruttore n. 3 di San Bartolomé de Tirajana (Spagna): “VL manifestava la sua intenzione di chiedere la protezione internazionale poiché temeva persecuzioni a causa della sua razza o della sua appartenenza ad un gruppo sociale. Egli sottolineava, in particolare, che, a causa della guerra che infuriava in Mali, un ritorno in tale paese lo avrebbe esposto al rischio di esservi ucciso”. Il giudice, in mancanza di disponibilità sufficienti di posti presso un centro di accoglienza umanitaria, ha “disposto il collocamento degli altri quattordici richiedenti, tra cui VL, in un centro di trattenimento per gli stranieri e che la loro domanda di protezione internazionale fosse trattata all’interno di tale centro di trattenimento”.
Ecco quindi che “L’avvocato di VL ha proposto un ricorso per la riforma della decisione di trattenimento di VL, per il motivo che tale decisione sarebbe incompatibile con le direttive 2013/32 e 2013/33”. Ciò ha portato il giudice spagnolo a rimandare il caso al giudizio della CGUE per chiarire alcune questioni sia sulla competenza del giudice spagnolo che di metodo relative alle norme contenute in tali direttive, per esempio sulla legittimità del trattenimento presso il centro in cui è stato collocato VL.
In particolare, con la sentenza è stato riconosciuto il fatto che tale trattamento costituisce “una misura privativa della libertà tale da giustificare l’avvio del procedimento pregiudiziale d’urgenza […] Un siffatto motivo di trattenimento è, di conseguenza, contrario alle prescrizioni dell’articolo 8, paragrafi da 1 a 3, di tale direttiva (la n. 2013/33, ndr), in quanto pregiudica il contenuto essenziale delle condizioni materiali di accoglienza che devono essere riconosciute a un richiedente protezione internazionale nel corso dell’esame della sua domanda di protezione internazionale e non rispetta né i principi né l’obiettivo di detta direttiva”.
Come si avrà modo di leggere nel testo della sentenza, disponibile cliccando qui, si tratta di un caso particolarmente complesso e che ha necessitato di ben sei mesi per arrivare ai chiarimenti richiesti.
Consigli di lettura
Quali saranno gli effetti sociali della nuova crisi legata alla pandemia, che stiamo tutti attraversando? Questa settimana vi proponiamo un interessante spunto che abbiamo individuato, un’intervista in cui si dà voce ad un esperto di lungo corso, con circa cinquant’anni di studi e ricerche alle spalle, il Prof. Giovanni Battista Sgritta, professore emerito di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma. Le sue parole sintetizzano efficacemente il senso della dimensione attuale e volgono però lo sguardo al nuovo millennio.
Una delle parole chiave è insicurezza: nel lavoro, nella sfera sociale e civile, partendo da dinamiche globali, il Prof. Sgritta delina la situazione che si va configurando anche nel nostro Paese. Le crisi aprono la strada ad opportunità? Meglio essere realisti. Sostiene infatti l’intervistato che “Questa epidemia ha dato un colpo durissimo ad una socialità fragile. Pensiamo soprattutto a chi sulla socialità fa conto per l’assistenza e la sopravvivenza, come gli ultimi della società, le persone senza casa, senza fissa dimora, coloro che sono affetti da malattie gravi. Finora potevano contare sull’attenzione di associazioni, volontari, di una comunità, e oggi le difficoltà nel garantire una continuità a questo aiuto si sono moltiplicate, perché il Coronavirus ha abolito la promiscuità”.
Come già verificatosi nel corso di altre situazioni di crisi, per esempio quella dello scorso decennio, si ha comunque un’opportunità: quella di “ristrutturare la casa comune” e renderla più resistente allo scoppio di nuove intemperie. Per esempio, molti nuovi obiettivi sono stati posti per iscritto, uno su tutti, nel 2017, il Pilastro sociale europeo, ancora largamente irrealizzato, ma che rappresenta un importante programma da perseguire con ogni mezzo, proprio per disporre degli strumenti adeguati per far fronte allo scoppio di nuove situazioni di crisi che portino alla perdita di posti di lavoro e all’indebolimento dell’economia. Secondo il Prof. Sgritta, il metodo da seguire per il futuro dev’essere quello di “Agire senza attendere le emergenze”, per esempio in ambito sanitario, là dove tutto ciò che non è urgente è stato rinviato e dove invece il rispetto di un principio metodologico del genere comporterebbe un approccio totalmente nuovo e adeguato alla portata di tempi così mutevoli.