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In sintonia con gli argomenti trattati a proposito del tema della non discriminazione, questa settimana alleghiamo il saggio “Framing the Principle of Non-Discrimination on Grounds of Nationality. Art. 18(1) TFEU in the ECJ case law”. A firma della prof.ssa Lucia Serena Rossi, docente ordinario di Diritto dell’Unione europea presso l’Università di Bologna, dall'8 Ottobre 2018 giudice alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, si tratta di un’ampia dissertazione sul principio di non discriminazione nei trattati, in rapporto alle politiche Ue ulteriori a quelle per il riconoscimento della cittadinanza, agli effetti dell’articolo 18 e alla Giurisprudenza della Corte in merito.
Come afferma il prof. Paolo Ponzano, segretario generale del Movimento Europeo e docente di Diritto dell’Ue presso il Collegio europeo di Parma, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha svolto un ruolo importante “nell’estensione dei diritti del lavoratore o del migrante che circola liberamente in seno alla Comunità grazie alla sua equiparazione quasi integrale al cittadino dello Stato in cui risiede o in cui esercita la sua attività economica”[*]. Nel saggio da cui è tratta la presente citazione, vengono citati una serie di casi in cui alla Corte è spettato il compito di dirimere questioni riguardanti la sfera della cittadinanza:
La sentenza Cowan del 1989, in cui “si trattava di stabilire se la corresponsione di un indennizzo previsto dal diritto francese a favore delle vittime di aggressioni residenti in Francia potesse essere estesa anche a favore di un cittadino inglese che aveva subito un aggressione nella metropolitana di Parigi dove si trovava come turista. La Corte ha ritenuto che ad usufruire della libertà di prestazione dei servizi non siano solo persone che si spostano nella Comunità europea per offrirli e prestarli ma anche quelle che si spostano per cercarli e riceverli. Quindi l’indennizzo andava esteso al Sig. Cowan”;
La sentenza Micheletti (1992), in cui “la CEG ha ritenuto che una persona provvista di doppia cittadinanza (argentina e italiana) non potesse essere privato di una cittadinanza dell’Unione (quella italiana) solo perché la legislazione spagnola lo considerava solo argentino”;
La sentenza nel caso Martinez Sala del 1998, in cui “la Corte riconosce ad una cittadina spagnola residente in Germania il diritto di beneficiare di un’allocazione per l’educazione di suo figlio che gli era stata rifiutata con la motivazione che la legislazione tedesca accordava tale allocazione ai soli nazionali ed agli stranieri in possesso di un permesso di soggiorno sul territorio nazionale (permesso di cui la Signora Sala non disponeva)”;
La sentenza Chen (2004), con cui “la CEG ha ritenuto che i giudici inglesi non potessero negare rilievo all’acquisizione della cittadinanza irlandese da parte di una signora figlia di cittadini cinesi ma nata nell’Irlanda del Nord, che aveva usufruito del fatto che l’Irlanda attribuisce la propria cittadinanza anche ai nati nell’Irlanda del Nord”;
La sentenza Rottmann (2010), con cui “la CEG ha affermato il principio che gli Stati membri, anche se restano competenti per determinare i modi di acquisto e di perdita della cittadinanza, devono rispettare il diritto europeo nell’esercizio di tale competenza. Pertanto una decisione di revoca della naturalizzazione che implichi la perdita della cittadinanza europea deve essere valutata alla luce del principio di proporzionalità e non può privare ingiustamente un cittadino della sua cittadinanza statale”.
La sentenza Zambrano Ruiz, che “va al di là del riconoscimento dello status di cittadino europeo come fondamento dell’acquisizione di prestazioni sociali nell’ipotesi di migrazioni intracomunitarie, per estendere i benefici dello status di cittadino europeo anche quando non c’è circolazione in seno all’Unione europea. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che i figli minori di cittadini provenienti dal Sud America, in quanto nati e residenti in Belgio e quindi cittadini belgi, non potevano essere privati del diritto di risiedere in Belgio né potevano essere costretti ad abbandonare il Belgio per seguire i loro genitori, qualora a quest’ultimi fosse rifiutato il permesso di lavoro in Belgio. Quindi, afferma la CEG, la cittadinanza europea osta a misure nazionali che abbiano l’effetto di privare i cittadini europei del godimento reale ed effettivo dei diritti attribuiti dal loro status di cittadini dell’Unione”.
Emerge quindi come la cittadinanza europea sia, afferma Ponzano, “talmente forte da poter essere invocata davanti alle autorità di un altro Stato membro (anche se acquisita in via strumentale)”. Per chiarire meglio in che modo si possa definire il concetto di cittadinanza europea, ci sembra qui il caso di concludere riprendendo alcuni principi ad essa inerenti, affermati dall’Avvocato generale Poiares Maduro sul caso Rottman e ripresi nel testo di Ponzano: “La cittadinanza dell’Unione presuppone la cittadinanza di uno Stato membro, ma è anche una nozione giuridica e politica autonoma rispetto a quella di cittadinanza nazionale. La cittadinanza europea costituisce qualcosa in più di un insieme di diritti che, di per sé, potrebbero essere concessi anche a coloro che non la possiedono. Essa presuppone l’esistenza di un collegamento di natura politica tra i cittadini europei, anche se non si tratta di un rapporto di appartenenza ad un popolo. Tale nesso politico unisce, al contrario, i popoli dell’Europa. Esso si fonda sul loro impegno reciproco ad aprire le rispettive comunità politiche agli altri cittadini europei e a costruire una nuova forma di solidarietà civica e politica su scala europea. Il nesso politico in questione non presuppone l’esistenza di un unico popolo, ma di uno spazio politico europeo, dal quale scaturiscono diritti e doveri”.
Nel ventennale della proclamazione della Carta dei diritti fondamentali, che ricorrerà esattamente sabato prossimo, 7 dicembre, questa rubrica ha il compito di fornire spunti di riflessione sempre nuovi. Ecco quindi che, volendo occuparci dell’articolo 21, sulla “non discriminazione”, possiamo intanto avviare il discorso considerando che già in numerose altre newsletter abbiamo trattato il tema dell’uguaglianza, al quale è dedicato il capo III della Carta (artt. 21-26). Cominciamo con il definire in che modo si possa declinare il principio di uguaglianza, attraverso l’elencazione dei vari tipi di discriminazione di cui si occupa il primo comma. Le discriminazioni possono essere fondate: “sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
Abbiamo già trattato vari casi in cui la Corte di Giustizia dell’Ue è stata chiamata a valutare il fatto se i provvedimenti degli Stati membri in tali ambiti – per esempio sul tema dell’immigrazione, della cittadinanza, dei diritti di persone su cui pendono procedimenti penali – siano stati o meno coerenti con il diritto a non essere discriminati e vi invitiamo perciò anche a rileggere i vari di numeri di questa edizione 2020 della newsletter. Quello che qui ci sembra importante evidenziare è il fatto che l’affermazione dell’uguaglianza può intendersi come una continua conquista da parte dei soggetti che si vedono coinvolti in vicende giudiziarie o in provvedimenti di una autorità pubblica che rischiano di recare in sé aspetti discriminatori.
L’Unione europea si pone quindi l’obiettivo, anche con l’articolo 21, di rimediare a situazioni che di fatto impediscono un pieno e completo sviluppo della persona umana rispetto anche al principio di uguaglianza. Per perseguire tale scopo, interviene anche l’articolo 9 del Trattato di Lisbona in cui si afferma che “L'Unione rispetta, in tutte le sue attività, il principio dell'uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi. È cittadino dell'Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell'Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce”. Tali affermazioni sono in linea con quanto previsto al secondo comma dell’articolo 21, secondo cui “Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi”.