Mercoledì 14 settembre il Parlamento europeo voterà il testo concordato con il Consiglio (che dovrebbe seguire il P.E. dopo pochi giorni), dopo un lungo e complesso negoziato, sulla proposta di direttiva su salari minimi adeguati nell’Unione europea (Ue).
Il voto, secondo una procedura speciale, sarà di accettazione o meno in blocco del nuovo testo della direttiva contestata con un certo vigore da alcuni Stati – soprattutto dell’Europa del Nord - e a lungo dibattuta anche tra le parti sociali.
La premessa di questo passaggio - che estende le competenze sovranazionali in un aspetto decisivo, soprattutto oggi in una situazione di debolezza del potere sindacale e di frammentazione delle attività produttive connesse anche ai processi dirompenti di digitalizzazione dell’economia, della disciplina dei rapporti di lavoro - è l’approvazione a Göteborg il 27.11.2017 dello European social Pillar il cui art. 6 stabilisce che “I lavoratori hanno diritto a una retribuzione che offra un tenore di vita dignitoso”.
Tuttavia, poiché molti dei 20 diritti e principi sanciti nel Social Pillar sono ancora di competenza nazionale, è stata l’attuale Commissione europea a sostenere con una certa determinazione che il “problema salariale“ fosse, per la sua gravità, una grande questione europea e che spettasse all’Ue introdurre un quadro normativo capace di innalzare il livello delle retribuzioni in tutti gli stati membri verso la soglia di decenza.
Secondo gli studi della Commissione europea, i lavoratori con “retribuzioni indecenti” sarebbero oltre venti milioni e in più di nove Stati membri i salari minimi riconosciuti non proteggono dal rischio di povertà.
Nel muoversi in questa direzione, la Commissione europea ha dovuto fronteggiare obiezioni giuridiche di una certa serietà in quanto l’art. 153.5 del TFUE (norma voluta e sempre accanitamente difesa dal Regno Unito al tempo del negoziato sul Trattato di Lisbona) stabilisce che le procedure di approvazione previste nell’articolo in questione per l’approvazione delle normative a carattere sociale (soggette anche al cosiddetto dialogo sociale europeo, cioè ad un confronto con le parti sociali che godono della possibilità di adottare nelle materie in esame una direttiva) non si applicano a retribuzioni, diritto di associazione e sciopero.
Questo ostacolo, certamente da rimuovere per il futuro, è stato ingigantito dai soggetti contrari ad un intervento regolativo, tra cui anche i paesi scandinavi gelosi dei loro sistemi (molto efficienti) retributivi fondati sulla contrattazione collettiva.
La Commissione europea ha dovuto quindi scegliere una via indiretta per la promozione di salari adeguati fondata sulla trasparenza delle procedure e degli indicatori per l’aggiornamento dei minimi, sui meccanismi di monitoraggio e di informazione sui livelli dovuti e sulle singole componenti di questi (che coinvolge il problema non semplice di qualificare un trattamento goduto come retributivo o meno), sulla difesa giudiziaria e sulle garanzie rafforzate di chi agisce legalmente, sul monitoraggio europeo dell’andamento dei salari e sul contrasto del lavoro falsamente autonomo etc.
Solo per gli Stati che hanno già attribuito alla legge questa competenza sono state individuate regole più stringenti.
La strada intrapresa ed oggi convalidata dall’accordo con il Consiglio mantiene in modo rigoroso la libertà dei paesi membri di scegliere una delle due soluzioni consentite per mantenere un livello decoroso delle retribuzioni in tutti i settori: l’attribuzione alla contrattazione collettiva di questo compito (opzione che oggi seguono solo sei paesi, tra i quali l’Italia) oppure l’introduzione di salari minimi legali (statutory minimum wage).
La proposta di direttiva non obbliga (art. 3) i paesi che hanno un sistema contrattuale a definire neppure un’efficacia erga omnes dei contratti o particolari criteri di rappresentatività per la loro stipula.
Per questi ultimi paesi la direttiva si occupa in buona sostanza (a parte le norme sul monitoraggio, le ispezioni, la difesa giudiziaria etc.) solo di promuovere e spingere verso una copertura molto ampia dei lavoratori da parte dei contratti: al di sotto dell’80% della copertura, infatti, gli Stati sono tenuti a varare un piano efficace e trasparente di estensione, da concordarsi con le parti sociali in una costante interlocuzione con la Commissione europea (art. 4).
Obblighi certamente più stringenti valgono per i rimanenti 21 Stati nei quali il salario minimo è stabilito attraverso” binding legal previsions”: in questo caso la proposta di direttiva obbliga questi paesi a definire le necessarie procedure per la “determinazione e l'aggiornamento dei salari minimi legali. Tale determinazione e aggiornamento sono basati su criteri stabiliti per contribuire alla loro adeguatezza, al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso, ridurre la povertà lavorativa, promuovere la coesione sociale e una convergenza sociale verso l'alto e ridurre il divario retributivo di genere” (art. 5).
Sebbene gli Stati godano di una certa discrezionalità nello stabilire i criteri di aggiornamento nazionali devono tenere in considerazione almeno i seguenti elementi: a) il potere d'acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita; b) il livello generale dei salari e la loro distribuzione; c) il tasso di crescita dei salari; d) i livelli e l'andamento nazionali a lungo termine della produttività.
Possono inoltre ricorrere a un meccanismo automatico di adeguamento dell'indicizzazione dei salari minimi legali, basato su criteri appropriati e conformemente al diritto e alle prassi nazionali, a condizione che l'applicazione di tale meccanismo non comporti una diminuzione del salario minimo legale ed i utilizzano valori di riferimento indicativi per orientare la loro valutazione dell'adeguatezza dei salari minimi legali.
A tal fine, possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60 % del salario lordo mediano e il 50 % del salario lordo medio, e/o valori di riferimento indicativi utilizzati a livello nazionale.
Entrano in gioco, quindi, gli standard internazionali in base ai quali alcuni paesi hanno fissato soglie predeterminate di salario minimo interprofessionale come, notoriamente la Germania o la Spagna (in applicazione di questi standard si era proposta per l’Italia la cifra di 9 euro lordi).
Pertanto, la proposta di direttiva vincola chiaramente questi Stati (21) a prevedere meccanismi trasparenti di adeguamento dei livelli di salario minimo legale, concordati anche con le parti sociali (art. 7), tali da poter raggiungere livelli di decenza retributiva ed impedire il fenomeno del lavoro povero (in molti paesi integrato da sistema di reddito minimo garantito come in Germania o in Italia) secondo gli scopi della direttiva.
Sebbene le formule siano, soprattutto dopo le correzioni del Consiglio, piuttosto aperte, un controllo della Corte di giustizia (e prima ancora della Commissione europea) sul rispetto di questi obblighi è certamente possibile, tenuto conto soprattutto degli indicatori internazionali che offrono parametri dai quali non sembrerebbe possibile per i paesi membri allontanarsi immotivatamente ed irrazionalmente.
Il criterio dell’effetto utile delle direttive, ampiamente utilizzato anche in campo sociale dalla Corte di giustizia, potrebbe condurre ad interpretazioni esigenti degli obblighi posti dall’art. 5 e seguenti.
Si tratta quindi, soprattutto per la maggioranza dei paesi soggetti a disciplina legale, di un deciso passo in avanti verso una maggiore equità delle relazioni di lavoro, di una vittoria di coloro che hanno scommesso già nel 2017 sul Social Pillar come strada unitaria di rilancio del capitolo sociale dell’Unione, cui dovrebbe seguire la definizione di una regolamentazione per il lavoro intermediato da piattaforme (attualmente la proposta di direttiva è pendente per gli emendamenti al Parlamento europeo) e di una complessa disciplina sugli obblighi per le più grandi imprese di controllare il rispetto dei diritti sociali fondamentali anche nelle filiere produttive della subfornitura e,infine, l’emanazione di una attesa Raccomandazione sul reddito minimo garantito ed il contrasto della povertà.
E’ vero che la proposta di direttiva di cui abbiamo parlato lascia molto liberi gli Stati che rinviano alla contrattazione collettiva per determinare il livello di salario minimo (soprattutto quelli che hanno una copertura dei contratti superiore all’80% come l’Italia) , ma ci saranno ben due anni perché questi paesi possano chiedersi seriamente se i loro sistemi contrattuali attuali sono davvero efficienti ed adeguati per raggiungere gli scopi della direttiva che ribadisce, secondo i principi generali, che è sempre possibile adottare una normativa interna più favorevole per i lavoratori rendendosi virtuosi anche prater legem.
Non solo la proposta in corso di approvazione, come già accennato, prevede comunque obblighi amministrativi, ispettive, informativi, giurisdizionali che sono comuni a tutti gli stati ma sembra auspicabile che tutti i paesi si interroghino, in cooperazione con le parti sociali, se non siano necessarie modifiche legislative e/o endosindacali che, seguendo le indicazioni ed i parametri accolti dall’Ue, impediscano contratti collettivi con salari minimi al di sotto della soglia della povertà.
Giuseppe Bronzini
Roma, 12 settembre 2022
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