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Quali saranno gli effetti sociali della nuova crisi legata alla pandemia, che stiamo tutti attraversando? Questa settimana vi proponiamo un interessante spunto che abbiamo individuato, un’intervista in cui si dà voce ad un esperto di lungo corso, con circa cinquant’anni di studi e ricerche alle spalle, il Prof. Giovanni Battista Sgritta, professore emerito di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma. Le sue parole sintetizzano efficacemente il senso della dimensione attuale e volgono però lo sguardo al nuovo millennio.

Una delle parole chiave è insicurezza: nel lavoro, nella sfera sociale e civile, partendo da dinamiche globali, il Prof. Sgritta delina la situazione che si va configurando anche nel nostro Paese. Le crisi aprono la strada ad opportunità? Meglio essere realisti. Sostiene infatti l’intervistato che “Questa epidemia ha dato un colpo durissimo ad una socialità fragile. Pensiamo soprattutto a chi sulla socialità fa conto per l’assistenza e la sopravvivenza, come gli ultimi della società, le persone senza casa, senza fissa dimora, coloro che sono affetti da malattie gravi. Finora potevano contare sull’attenzione di associazioni, volontari, di una comunità, e oggi le difficoltà nel garantire una continuità a questo aiuto si sono moltiplicate, perché il Coronavirus ha abolito la promiscuità”.

Come già verificatosi nel corso di altre situazioni di crisi, per esempio quella dello scorso decennio, si ha comunque un’opportunità: quella di “ristrutturare la casa comune” e renderla più resistente allo scoppio di nuove intemperie. Per esempio, molti nuovi obiettivi sono stati posti per iscritto, uno su tutti, nel 2017, il Pilastro sociale europeo, ancora largamente irrealizzato, ma che rappresenta un importante programma da perseguire con ogni mezzo, proprio per disporre degli strumenti adeguati per far fronte allo scoppio di nuove situazioni di crisi che portino alla perdita di posti di lavoro e all’indebolimento dell’economia. Secondo il Prof. Sgritta, il metodo da seguire per il futuro dev’essere quello di “Agire senza attendere le emergenze”, per esempio in ambito sanitario, là dove tutto ciò che non è urgente è stato rinviato e dove invece il rispetto di un principio metodologico del genere comporterebbe un approccio totalmente nuovo e adeguato alla portata di tempi così mutevoli.

 

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Quali meccanismi si attivano per il riconoscimento dello status di rifugiato? A quali strumenti si ricorre? La conoscenza di molti testi non basterebbe a sintetizzare un tema che emerge in tutta la sua complessità e che anzi avrebbe bisogno di una strategia che forse semplifichi l’approccio al problema e punti su una maggiore coesione europea. A testimonianza di quale possa essere il ruolo della Corte di Giustizia dell’Unione europea, questa settimana Vi proponiamo un caso che è stato recentemente affrontato; si tratta infatti di una sentenza del 25 giugno 2020, che ha trattato la vicenda di VL, cittadino di origine del Mali, che il 12 dicembre 2019 si trovava, assieme ad altre 44 persone, a bordo di un’imbarcazione intercettata nei pressi delle coste spagnole.

Dopo essere stati soccorsi, sbarcati sulla banchina a sud dell’isola di Gran Canaria e aver ricevuto le prime cure, il caso di VL è rientrato, il 14 dicembre 2019, tra quelli di competenza del giudice istruttore n. 3 di San Bartolomé de Tirajana (Spagna):  “VL manifestava la sua intenzione di chiedere la protezione internazionale poiché temeva persecuzioni a causa della sua razza o della sua appartenenza ad un gruppo sociale. Egli sottolineava, in particolare, che, a causa della guerra che infuriava in Mali, un ritorno in tale paese lo avrebbe esposto al rischio di esservi ucciso”. Il giudice, in mancanza di disponibilità sufficienti di posti presso un centro di accoglienza umanitaria, ha “disposto il collocamento degli altri quattordici richiedenti, tra cui VL, in un centro di trattenimento per gli stranieri e che la loro domanda di protezione internazionale fosse trattata all’interno di tale centro di trattenimento”.

Ecco quindi che “L’avvocato di VL ha proposto un ricorso per la riforma della decisione di trattenimento di VL, per il motivo che tale decisione sarebbe incompatibile con le direttive 2013/32 e 2013/33”. Ciò ha portato il giudice spagnolo a rimandare il caso al giudizio della CGUE per chiarire alcune questioni sia sulla competenza del giudice spagnolo che di metodo relative alle norme contenute in tali direttive, per esempio sulla legittimità del trattenimento presso il centro in cui è stato collocato VL.

In particolare, con la sentenza è stato riconosciuto il fatto che tale trattamento costituisce “una misura privativa della libertà tale da giustificare l’avvio del procedimento pregiudiziale d’urgenza […] Un siffatto motivo di trattenimento è, di conseguenza, contrario alle prescrizioni dell’articolo 8, paragrafi da 1 a 3, di tale direttiva (la n. 2013/33, ndr), in quanto pregiudica il contenuto essenziale delle condizioni materiali di accoglienza che devono essere riconosciute a un richiedente protezione internazionale nel corso dell’esame della sua domanda di protezione internazionale e non rispetta né i principi né l’obiettivo di detta direttiva”.

Come si avrà modo di leggere nel testo della sentenza, disponibile cliccando qui, si tratta di un caso particolarmente complesso e che ha necessitato di ben sei mesi per arrivare ai chiarimenti richiesti.

 

 

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Ci siamo già occupati del fenomeno migratorio, in settembre, con la newsletter n. 30 intitolata "Immigrazione e asilo, le inadeguatezze europee". Ritorniamo ora sul tema, a fronte di una nuova prova delle carenze esistenti nella risposta europea al problema. E’ necessaria e urgente una maggiore coesione nel superamento del principio secondo cui la responsabilità della prima accoglienza spetta al Paese di “primo sbarco”, come afferma il regolamento di Dublino. L’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali di cui ci occupiamo questa settimana, ci ricorda peraltro che esistono altre fonti di riferimento sul diritto di asilo: esso infatti, come afferma l’unico comma dell’articolo, “è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato che istituisce la Comunità europea”. Per esempio, l’articolo 80 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue afferma, evidentemente in contraddizione con quanto stabilito a Dublino, che “le politiche dell'Unione di cui al presente capo e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.Ogniqualvolta necessario, gli atti dell'Unione adottati in virtù del presente capo contengono misure appropriate ai fini dell'applicazione di tale principio”.

Appare evidente il carattere paradossale del regolamento di Dublino, perché il principio del Paese di “primo sbarco” oltre ad essere in contraddizione con i valori europei, è evidentemente incompatibile anche con quanto afferma una fonte primaria del diritto dell’Ue. Se poi si indaga sull’approccio adottato nei confronti dell’immigrazione, sembrerebbe che l’orientamento istituzionale di questi tempi sia stato più guidato da logiche minuziose che distinguono il richiedente asilo dal migrante economico, l’apolide dall’extra-comunitario, il rifugiato dal clandestino e che si soffermano sulla situazione specifica dell’eco-profugo; e che, tuttavia, nel porre dei distinguo e nell’adottare in base alla casistica una strategia differente, rischiano di perdere di vista i principi e i valori fondanti di una Unione che, per dirsi davvero tale, in coerenza specialmente con il principio della solidarietà, vede dinnanzi a sé la necessità di riformare le sue modalità di azione, per poter dimostrare una coerenza, rispetto a tali principi, molto più rispetto a quanto non si sia fatto finora.

 

 

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