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Questa settimana poniamo alla vostra attenzione una sentenza interessante perché consente di conoscere nel dettaglio alcuni meccanismi relativi alle modalità concrete attraverso cui avviene l’accesso al credito da parte di stati e istituti finanziari che ne facciano richiesta. Le parti in causa sono da un lato il Consiglio dell’Ue, sostenuto dalla Finlandia e, dall’altro, un gruppo di cittadini e imprese cipriote; parti convenute in primo grado sono l’Unione europea, rappresentata dalla Commissione, la Banca Centrale europea e l’Eurogruppo.
L’iter si è sviluppato lungo un arco temporale che va dal 2012 al 2020 – si è infatti concluso con la sentenza del 16 dicembre scorso – ed ha riguardato la seguente vicenda:
“Nel corso dei primi mesi dell’anno 2012, la Repubblica ellenica e i suoi creditori obbligazionisti privati hanno proceduto ad uno scambio di titoli di credito greci con un taglio sostanziale sul valore nominale del debito greco detenuto dagli investitori privati [Private Sector Involvement (in prosieguo: il «PSI»)]. Quale conseguenza della loro esposizione sui titoli oggetto del PSI, diverse banche stabilite a Cipro, fra cui la Laiki (Cyprus Popular Bank Public Co. , ndr) e la BoC (Trapeza Kyprou Dimosia Etaireia, ndr), hanno subito perdite considerevoli ed hanno incontrato problemi di sottocapitalizzazione. […].
In tali circostanze, la Repubblica di Cipro ha reputato necessario intervenire a sostegno del settore bancario cipriota, segnatamente ricapitalizzando la Laiki nella misura di EUR 1,8 miliardi nel giugno del 2012. Nel corso dello stesso mese, la BoC ha annunciato di avere domandato anch’essa alle autorità cipriote un sostegno in capitale, ma di non averlo ottenuto. Il 25 giugno 2012, la Repubblica di Cipro ha presentato al presidente dell’Eurogruppo una domanda di assistenza finanziaria del MES o del Fondo europeo di stabilità finanziaria.
Con dichiarazione del 27 giugno 2012, l’Eurogruppo ha indicato che l’assistenza finanziaria richiesta sarebbe stata fornita alla Repubblica di Cipro da tale Fondo o dal MES, nel quadro di un programma di aggiustamento macroeconomico che doveva concretizzarsi in un protocollo d’intesa, la cui negoziazione sarebbe stata condotta, da un lato, dalla Commissione, di concerto con la BCE e con il FMI, e, dall’altro, dalle autorità cipriote. Il 29 novembre 2012, alcuni rappresentanti della Commissione, della BCE, del FMI e della Repubblica di Cipro hanno redatto un progetto di protocollo d’intesa.
Nel marzo del 2013, la Repubblica di Cipro e gli altri SMME (Stati membri la cui moneta è l’euro, ndr) sono pervenuti ad un accordo politico su tale progetto di protocollo d’intesa. Con dichiarazione del 16 marzo 2013, l’Eurogruppo ha accolto positivamente tale accordo, ed ha prospettato alcune misure di aggiustamento che le autorità cipriote si sono impegnate a prendere, tra le quali la creazione di un’imposta sui depositi bancari, la ristrutturazione e la ricapitalizzazione di banche, nonché misure di bail‑in nei riguardi dei detentori di obbligazioni subordinate”.
L’iter è assai lungo e complesso, ma questo punto aiuta a comprendere la controversia: risparmiatori e correntisti ciprioti hanno infatti presentato dei “ricorsi intesi ad ottenere, in via principale, che il Consiglio, la Commissione, la BCE e l’Eurogruppo […] siano condannati a pagare loro gli importi indicati in allegato ai loro ricorsi, maggiorati degli interessi decorrenti dal 16 marzo 2013 fino alla data della pronuncia delle sentenze del Tribunale, e, in via subordinata, che venga dichiarata la responsabilità extracontrattuale dell’Unione e/o dei convenuti e che venga stabilita la procedura da seguire per accertare le perdite recuperabili che essi hanno effettivamente subito”.
Tuttavia, la sentenza del 16 dicembre 2020 (in estrema sintesi) ha portato a rigettare o ritenere irricevibili i ricorsi presentati e ha condannato i ricorrenti a sopportare le spese proprie e quelle sostenute dalle istituzioni europee.
Il testo integrale della sentenza è disponibile cliccando qui.
Chiudiamo con l’articolo 28 della Carta dei diritti fondamentali la rassegna dedicata al tema dei diritti dei lavoratori e della sezione della stessa dedicata alla solidarietà. In particolare, i diritti a cui si fa riferimento sono in questo caso quelli alla negoziazione e alle azioni collettive. In poche parole, si sintetizza chi siano gli attori e come si possano affermare tali loro istanze: l’articolo infatti fa riferimento non solo ai lavoratori, ma anche ai datori di lavoro e, per entrambi, alle rispettive organizzazioni sindacali. Come è noto, essi agiscono in base alla legge: come infatti riporta l’articolo trattato, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi è esercitato “Conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Proprio in questi giorni si è potuto riscontrare, in Italia, un esempio di come si attui tale iter e della valenza che esso assume per garantire tutele per la perequazione e rispondere alle nuove necessità poste in essere dalla sopraggiunta crisi. Attraverso la concertazione, le parti sociali possono raggiungere l’obiettivo di vedersi tutelate ciascuna per la propria parte nell’ambito dei contratti collettivi. Attraverso l’esercizio di questo diritto, ne vengono affermati anche altri: per esempio, quelli alla conciliazione tra vita familiare e vita professionale, alla sicurezza e l’assistenza sociale, alla salute.
C’è un secondo aspetto trattato nell’unico comma dell’articolo 28 ed è quello relativo alla possibilità di ricorso, per le parti sopra menzionate, “In caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero”. In merito a ciò, riteniamo interessante soffermarci su una controversia in atto che riguarda i lavoratori italiani di Amazon: è il primo sciopero al mondo che coinvolga l’azienda e interesserà il non facile aspetto della mediazione tra le parti. In era di pandemia, infatti, Amazon ha incrementato il suo volume d’affari, ma non proporzionalmente il personale ingaggiato, rendendo così più onerose le condizioni di lavoro. Si è aperta quindi con Filt Cgil, Fit Cisl e Uilt una vicenda in cui si evidenzia un diverso modo di intendere i rapporti di lavoro. Infatti, come ha affermato il segretario nazionale Filt Cgil Michele De Rose, “La multinazionale americana deve prendere atto, suo malgrado, che il sindacato fa parte della storia del nostro paese e con le rappresentanze dei lavoratori deve confrontarsi, nel rispetto di un sistema corretto di relazioni sindacali e delle tutele e regole previste dal contratto nazionale Logistica, trasporto merci e spedizione”. I sindacati hanno annunciato lo sciopero per il prossimo 22 marzo, ma già si intuisce che la trattativa non sarà semplice e che, interessando anche l’articolo 28 della Carta, potrebbe anche evolvere in un ricorso alla CGUE.
Un ruolo delle imprese determinante per la difesa dei diritti umani e dell’ambiente
di Anna Maria Villa
L’ambiente, la digitalizzazione e la pronta attuazione del pilastro sociale sono le tre linee di azione da seguire, per garantire la ripresa e la resilienza dell’Unione europea dopo la crisi causata dal Covid-19.
Una ripresa e resilienza che presuppongono una nuova e rafforzata immagine dell’Unione europea nell’affrontare i temi sociali ed ambientali anche a livello internazionale. Il rispetto dei diritti umani e la protezione dell’ambiente, in un contesto economico globale, hanno infatti conseguenze oltre i confini europei.
Molte imprese europee operano in mercati internazionali ed in aree dove la tutela dei diritti umani e ambientali è ben lungi da quella garantita in Europa e in occidente. In quelle aree, anche la loro attività può contribuire a determinare impatti sociali ed ambientali negativi. L’Europa e le sue imprese sono chiamate dunque ad assumere un diverso ed importante ruolo anche a livello globale, presentandosi con una nuova immagine rispetto a quella adottata sino ad oggi, in coerenza e all’insegna di quei principi ritenuti fondamentali a livello europeo.
Lo sviluppo del commercio internazionale e delle relative catene di valore sono state sicuramente un’indiscussa fonte di benessere per le imprese e per certi aspetti anche per i paesi in via di sviluppo, dove vengono acquistate molte delle materie prime (ad oggi essenziali per la nostra economia, soprattutto per il settore digitale) e dove numerose industrie hanno delocalizzato i loro impianti.
Il problema della tutela dei diritti umani è noto da tempo. Già nel 2011 le Nazioni unite pubblicavano ‘I Principi guida su impresa e diritti umani’ (UNGP’s), che stabilivano una serie di principi generali che i vari attori si impegnavano a osservare su base volontaria. Gli Stati dovevano proteggere i diritti umani attraverso norme ad hoc e le imprese dovevano rispettarli attraverso un controllo sulle loro attività con azioni di prevenzione e ripristino di eventuali effetti negativi da loro stesse causati. Si trattava di una serie di indicazioni per promuovere una condotta di impresa responsabile e prevenire la violazione di diritti umani.
Analogamente, anche a livello di OCSE e ILO si lavorava per la definizione di standards – sempre su base volontaria - per la redazione da parte delle imprese di una dichiarazione (c.d. due diligence report), con cui si dava informazione di aver rispettato i principi e le norme in materia di diritti umani ed ambientali nell’ambito della propria attività.
Anche a livello europeo sono state adottate una serie di iniziative costituite da norme vincolanti e iniziative volontarie per tutelare i diritti umani ed ambientali nei settori considerati più vulnerabili, quali industrie estrattive, industrie del legname, industrie della moda e del pellame. Inoltre l’Unione europea è stata spesso coinvolta in iniziative di alto valore morale, quali il c.d. Kimberley process, lo stop al commercio dei diamanti estratti commercializzati da gruppi armati, i cui proventi finanziavano conflitti interni; ovvero il regolamento per una due diligence obbligatoria per gli importatori europei di alcuni minerali, estratti, in particolare in paesi del centro Africa, ad opera di bande ribelli locali, che li commercializzavano per finanziare con i proventi i conflitti locali. Grazie a quest’ultimo regolamento, le imprese europee dovevano dichiarare di essere certe che i prodotti acquistati non contribuivano al conflitto nella zona. Con lo stesso fine, il regolamento approvato nel 2010 prevede misure per bloccare il commercio internazionale del legname (e relativi prodotti) raccolto illegalmente. In questo caso la due diligence – obbligatoria – richiede alle imprese importatrici di indicare l’origine del legname acquistato e rivenduto in Europa.
Un’altra importante direttiva è quella sulla redazione di report non finanziari (NFRD). Dal 2018 la direttiva chiede alle grandi imprese di fornire informazioni sulle loro politiche riguardanti la corretta applicazione delle norme di protezione ambientale, responsabilità sociale, gestione del personale, rispetto dei diritti umani, lotta alla corruzione e alla concussione ecc. nonché una previsione sui possibili impatti negativi delle attività. La relazione di due diligence però non è obbligatoria per la parte riguardante il rispetto dei diritti umani per le attività realizzate in tutta la catena di valore dell’impresa, anche se la mancata informazione deve essere motivata.
La Commissione ha lanciato di recente una consultazione per proporre una revisione di questa direttiva entro il primo quadrimestre 2021. Molte organizzazioni della società civile hanno infatti denunciato che l’implementazione della direttiva per quanto riguarda la parte dei diritti umani è discontinua e necessita di una revisione per un’armonizzazione del sistema a livello UE. Ad oggi, infatti, l’Unione europea - salvo che in specifici settori – ha seguito un approccio essenzialmente di tipo volontaristico, che ha creato diversità di applicazione della direttiva nei vari Stati membri e quindi ha posto le imprese in diverse condizioni operative. Emerge pertanto una mancanza di certezze legali tra imprese dei diversi Stati che operano negli stessi settori, nonché di strumenti a tutela delle parti lese.
Con il Green Deal europeo, si è avuta una diversa impostazione dell’azione dell’Unione in Europa e nel mondo. Ponendo al centro dell’attenzione l’uomo e l’ambiente, la strategia sottolinea la necessità di evitare di riallocare industrie europee con un impatto ambientale negativo oltre i confini europei. Pertanto, una due diligence che riferisce anche sul rispetto dei diritti umani e sulla tutela ambientale sembra essere uno strumento importante anche a supporto della realizzazione degli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
La crisi sanitaria dovuta al COVID 19, come detto in più occasioni, ha sicuramente aumentato le divergenze tra paesi dell’Unione e anche tra paesi extra europei. È, dunque, essenziale un nuovo ruolo delle istituzioni europee e delle imprese anche oltre i confini dell’Unione.
Il Parlamento europeo ha affrontato questa problematica ed ha adottato una risoluzione di iniziativa, con cui chiede alla Commissione di intervenire su quelle imprese responsabili di atti contro i diritti umani e gli standard ambientali lungo tutta la linea di valore delle attività, non solo in Europa ma anche in quei paesi, con cui le stesse hanno relazioni economiche.
Si tratta di una importante indicazione che coinvolge la stessa governance aziendale. Le imprese saranno infatti chiamate a valutare preventivamente la loro strategia di azione per evitare impatti negativi in termini di rispetto dei diritti umani (compresi i diritti sociali, sindacali e del lavoro), tutela dell’ambiente (per es. in termini di lotta al cambiamento climatico, deforestazione, ecc.), grazie ad una nuova e trasparente governance interna, che principalmente prevede una maggiore responsabilità direzionale, la lotta alla corruzione, una due diligence obbligatoria anche sui diritti umani.
Tutte le imprese (piccole e grandi, industriali, commerciali e finanziarie) saranno, dunque chiamate a adottare misure commisurate alla possibilità di realizzazione di eventi negativi dovuti alla loro attività e a adottare azioni di prevenzione in relazione alle loro dimensioni, alle risorse a disposizione e in rapporto alla lunghezza della catena di valore a cui partecipano, sia in Europa e sia all’estero.
Le imprese europee, che operano all’estero, infatti potranno essere ritenute responsabili del mancato rispetto dei diritti umani o di un evento negativo sull’ambiente, entrambi causati dalla loro attività, salvo che non dimostrino di aver adottato tutte le misure ragionevoli di prevenzione e quindi saranno sanzionate in base alle leggi nazionali per i danni prodotti. Ci sarà infine la possibilità di tutela per chi ha sofferto un danno.
Anche gli Accordi internazionali dovranno prevedere questi temi nei capitoli del commercio e dello sviluppo sostenibile.
Una richiesta molto importante, dunque, nata dalla necessità che l’attività di impresa ovunque svolta, possa garantire il rispetto dei diritti umani e la tutela ambientale in tutti i paesi del mondo, ma anche nata dall’importanza per le imprese ad operare in una parità di trattamento, certezza del diritto, trasparenza decisionale. Accettare lo sfruttamento di minori, o pratiche di produzione non corrette, esclusivamente per questioni legate al profitto non è etico e avrebbe perpetuato con diversi metodi lo sfruttamento di popoli e nazioni già in profonda sofferenza. Non è questo il metodo per portare crescita e benessere in paesi sofferenti, anche se molto probabilmente gli effetti positivi di questa nuova impostazione non saranno subito percepiti dall’impresa e dai paesi dove questa opera. Ci auguriamo però che in tempi brevi possa essere raggiunto quel risultato positivo sperato su popolazioni e territori spesso devastati dalla mancanza di rispetto. Le ditte europee hanno dunque un compito estremamente importante nella lotta alla povertà e allo sfruttamento, anche se tutto ciò sicuramente almeno all’inizio costituirà per loro un grande impegno.