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Si apre un’altra settimana densa di impegni in ambito europeo, dopo il primo discorso sullo Stato dell’Unione della Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, largamente dedicato ai nuovi obiettivi per il rilancio europeo, che pongono al centro l’ambiente, la digitalizzazione, una maggiore integrazione anche dei diversi sistemi sanitari e il ruolo dell’Europa nel mondo. Altrettanto importanti, nei giorni che ci aspettano, il Consiglio affari generali del prossimo 22 settembre e il Consiglio europeo speciale previsto per il 24 e 25 settembre, che focalizzerà l’attenzione sulla politica estera e in particolare sul delicato tema dei rapporti tra l’Ue e la Turchia.
Una volta definito brevemente il contesto in cui ci troviamo, cogliamo l’occasione per elencare alcuni eventi, sia quelli in cui il Movimento europeo è coinvolto in qualità di organizzatore, sia quelli ai quali partecipa come partner:
- Riunione Consiglio di Presidenza Movimento europeo, 22.09.2020
Dedichiamo una parte importante della newsletter al lungo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato davanti al Parlamento europeo a Bruxelles il 16 settembre dalla Presidente Ursula Von der Leyen.
Come per Eduardo De Filippo, se ci si consente il paragone, si potrebbe parlare del colore delle parole e della temperatura dei silenzi.
Vogliamo concentrarci qui sulla temperatura dei silenzi limitandoci a due aspetti essenziali del futuro dell’Unione europea: la dimensione sociale e la Conferenza sul futuro dell’Europa lasciando a Fabio Masini un’analisi critica sulle priorità in materia di politica estera..
Il primo aspetto concerne il pilastro sociale e cioè la lotta alle diseguaglianze che non può essere risolta solo dal fiume di danaro che dovrebbe scorrere dalla sorgente di Bruxelles verso i paesi membri e suddividersi in sette rami diversi in parte sotto forma di prestiti (la maggioranza), in parte sotto forma di sovvenzioni dirette ma in parte attraverso programmi europei la cui destinazione nazionale non è garantita in partenza.
La pandemia non ha avuto effetti solo sull’economia e sulle finanze dei nostri paesi ma sui modelli delle nostre società a cominciare dal ruolo del lavoro, la mobilità, il tempo libero, il gap generazionale, le pari opportunità, i rapporti tra le città e le aree interne, le politiche di inclusione, gli effetti della società digitale e dello sviluppo della robotica, l’uso di strumenti come il blockchain che è andato ben al di là della diffusione dei bitcoin e infine – last but not least – il tema della democrazia economica.
La temperatura del silenzio nel discorso sullo stato dell’Unione può essere rapidamente verificata sia perché il 14 ottobre si terrà il “vertice sociale tripartito” fra istituzioni europee e parti sociali (rappresentanti dei lavoratori e imprenditori) che, ai tempi di Jacques Delors, era l’occasione per mettere sul tavolo proposte precise della Commissione sulla dimensione sociale, sia perché l’attuale Commissione presieduta da Ursula von der Leyen (che è stata ministra del lavoro in Germania) si è per ora limitata a dire e a proporre un metodo di sviluppo del Pilastro Sociale - adottato “solennemente” a Göteborg nel novembre 2017 - fondato su “piani di azione” e non su strumenti giuridicamente vincolanti o finalmente rispettosi della clausola sociale orizzontale introdotta all’art. 9 nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
L’idea dei piani d’azione è stata lanciata dalla Commissione europea in una comunicazione pre-pandemia del gennaio 2020 su cui vi è stata un’ampia consultazione e ci si poteva immaginare che dalle parole si passasse ai fatti e cioè a proposte legislative.
Il silenzio del 16 settembre è stato invece assordante e, nella lettera di intenti per il 2021 inviata al Presidente del PE David Sassoli e alla cancelliera Angela Merkel, Ursula von der Leyen preannuncia ventisette iniziative legislative ma solo un altro piano di azione sul Pilastro Sociale, su una garanzia per l’infanzia, su una strategia per l’occupazione e per l’economia sociale.
La seconda temperatura del (quasi) silenzio riguarda la Conferenza sul futuro dell’Europa, un’idea piuttosto vaga che fu lanciata da Emmanuel Macron il 4 marzo 2019 e che si sarebbe dovuta concludere alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi nella primavera del 2022.
Il Parlamento europeo ha considerato che la Conferenza potesse essere uno spazio per affermare la sua leadership e tentare di riaprire il cantiere dell’Unione europea chiedendo una riforma dei trattati a più di dieci anni dall’entrata in vigore di quello di Lisbona nel dicembre 2009.
Apparentemente bloccata dalla pandemia, la Conferenza non è partita perché sono molto distanti le posizioni fra il Parlamento europeo e i governi non solo sul principio della revisione dei trattati (che è condiviso per ora solo dal governo austriaco che vorrebbe ridare agli Stati delle competenze attribuite all’Unione) ma sulla governance (e cioè su chi deve presiederla), sui suoi tempi, sulle modalità del coinvolgimento della società civile e sul destino delle sue proposte.
Alla Conferenza Ursula von der Leyen ha dedicato trenta parole in quindici pagine dicendo che una delle sue missioni – “nobili e urgenti” – sarà la questione delle competenze in materia sanitaria. Non una parola sulla Conferenza è stata invece spesa in altre parti del discorso sul futuro dell’Unione che pur richiederebbero una riforma che potremmo chiamare costituzionale.
Possiamo immaginare che il solido pragmatismo tedesco abbia portato lentamente la Presidente della Commissione europea a riflettere sui rischi che una Conferenza promossa sulla base di un più che minimo comun denominatore fra Parlamento e governi possa diventare rapidamente uno spazio all’interno del quale scaricare tutte le questioni del “potere costituito” (e cioè delle decisioni che dovrebbero essere prese dalle istituzioni sulla base dei trattati e delle procedure attuali) lasciando da parte il “potere costituente” (e cioè tutto quel che deve essere fatto al di là dei trattati).
Le materie – “nobili e urgenti” – da sottoporre al potere costituente non mancano e sono state messe in evidenza in questi mesi di pandemia: la capacità fiscale dell’Unione europea e le risorse proprie (due parole chiave assenti nel discorso sullo stato dell’Unione), la governance dell’UEM per risolvere quella che Carlo Azeglio Ciampi chiamava la sua zoppìa, la paralisi nella politica estera e della sicurezza ivi compresa la dimensione della difesa per la prevalenza assoluta del metodo intergovernativo, l’integrazione differenziata e cioè il tema dell’Europa a due velocità, l’inadeguata ripartizione delle competenze e last but not least il tema della incompleta democrazia europea.
Speriamo che la temperatura del silenzio della presidente Ursula von der Leyen sulla Conferenza per il futuro dell’Europa preluda ad un suo atto di rottura dell’apparente pax interistituzionale e degli inutili tri-dialoghi fra i presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio europeo e della Commissione europea.
Speriamo soprattutto che il Parlamento europeo comprenda rapidamente il tempo perso nella ricerca di un minimo comun denominatore con il Consiglio europeo e con il Consiglio e proponga alla Commissione una via alternativa alla Conferenza sul futuro dell’Europa, infragilita anch’essa dalle conseguenze del COVID-19, un’alternativa che passi dall’incontro fra la democrazia rappresentativa e quella partecipativa affinché questa legislatura diventi finalmente costituente per costruire una “unione vitale in un mondo fragile”.
Dedichiamo una parte importante della newsletter al lungo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato davanti al Parlamento europeo a Bruxelles il 16 settembre dalla Presidente Ursula Von der Leyen.
Come per Eduardo De Filippo, se ci si consente il paragone, si potrebbe parlare del colore delle parole e della temperatura dei silenzi.
Vogliamo concentrarci qui sulla temperatura dei silenzi limitandoci a due aspetti essenziali del futuro dell’Unione europea: la dimensione sociale e la Conferenza sul futuro dell’Europa lasciando a Fabio Masini un’analisi critica sulle priorità in materia di politica estera..
Il primo aspetto concerne il pilastro sociale e cioè la lotta alle diseguaglianze che non può essere risolta solo dal fiume di danaro che dovrebbe scorrere dalla sorgente di Bruxelles verso i paesi membri e suddividersi in sette rami diversi in parte sotto forma di prestiti (la maggioranza), in parte sotto forma di sovvenzioni dirette ma in parte attraverso programmi europei la cui destinazione nazionale non è garantita in partenza.
La pandemia non ha avuto effetti solo sull’economia e sulle finanze dei nostri paesi ma sui modelli delle nostre società a cominciare dal ruolo del lavoro, la mobilità, il tempo libero, il gap generazionale, le pari opportunità, i rapporti tra le città e le aree interne, le politiche di inclusione, gli effetti della società digitale e dello sviluppo della robotica, l’uso di strumenti come il blockchain che è andato ben al di là della diffusione dei bitcoin e infine – last but not least – il tema della democrazia economica.
La temperatura del silenzio nel discorso sullo stato dell’Unione può essere rapidamente verificata sia perché il 14 ottobre si terrà il “vertice sociale tripartito” fra istituzioni europee e parti sociali (rappresentanti dei lavoratori e imprenditori) che, ai tempi di Jacques Delors, era l’occasione per mettere sul tavolo proposte precise della Commissione sulla dimensione sociale, sia perché l’attuale Commissione presieduta da Ursula von der Leyen (che è stata ministra del lavoro in Germania) si è per ora limitata a dire e a proporre un metodo di sviluppo del Pilastro Sociale - adottato “solennemente” a Göteborg nel novembre 2017 - fondato su “piani di azione” e non su strumenti giuridicamente vincolanti o finalmente rispettosi della clausola sociale orizzontale introdotta all’art. 9 nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
L’idea dei piani d’azione è stata lanciata dalla Commissione europea in una comunicazione pre-pandemia del gennaio 2020 su cui vi è stata un’ampia consultazione e ci si poteva immaginare che dalle parole si passasse ai fatti e cioè a proposte legislative.
Il silenzio del 16 settembre è stato invece assordante e, nella lettera di intenti per il 2021 inviata al Presidente del PE David Sassoli e alla cancelliera Angela Merkel, Ursula von der Leyen preannuncia ventisette iniziative legislative ma solo un altro piano di azione sul Pilastro Sociale, su una garanzia per l’infanzia, su una strategia per l’occupazione e per l’economia sociale.
La seconda temperatura del (quasi) silenzio riguarda la Conferenza sul futuro dell’Europa, un’idea piuttosto vaga che fu lanciata da Emmanuel Macron il 4 marzo 2019 e che si sarebbe dovuta concludere alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi nella primavera del 2022.
Il Parlamento europeo ha considerato che la Conferenza potesse essere uno spazio per affermare la sua leadership e tentare di riaprire il cantiere dell’Unione europea chiedendo una riforma dei trattati a più di dieci anni dall’entrata in vigore di quello di Lisbona nel dicembre 2009.
Apparentemente bloccata dalla pandemia, la Conferenza non è partita perché sono molto distanti le posizioni fra il Parlamento europeo e i governi non solo sul principio della revisione dei trattati (che è condiviso per ora solo dal governo austriaco che vorrebbe ridare agli Stati delle competenze attribuite all’Unione) ma sulla governance (e cioè su chi deve presiederla), sui suoi tempi, sulle modalità del coinvolgimento della società civile e sul destino delle sue proposte.
Alla Conferenza Ursula von der Leyen ha dedicato trenta parole in quindici pagine dicendo che una delle sue missioni – “nobili e urgenti” – sarà la questione delle competenze in materia sanitaria. Non una parola sulla Conferenza è stata invece spesa in altre parti del discorso sul futuro dell’Unione che pur richiederebbero una riforma che potremmo chiamare costituzionale.
Possiamo immaginare che il solido pragmatismo tedesco abbia portato lentamente la Presidente della Commissione europea a riflettere sui rischi che una Conferenza promossa sulla base di un più che minimo comun denominatore fra Parlamento e governi possa diventare rapidamente uno spazio all’interno del quale scaricare tutte le questioni del “potere costituito” (e cioè delle decisioni che dovrebbero essere prese dalle istituzioni sulla base dei trattati e delle procedure attuali) lasciando da parte il “potere costituente” (e cioè tutto quel che deve essere fatto al di là dei trattati).
Le materie – “nobili e urgenti” – da sottoporre al potere costituente non mancano e sono state messe in evidenza in questi mesi di pandemia: la capacità fiscale dell’Unione europea e le risorse proprie (due parole chiave assenti nel discorso sullo stato dell’Unione), la governance dell’UEM per risolvere quella che Carlo Azeglio Ciampi chiamava la sua zoppìa, la paralisi nella politica estera e della sicurezza ivi compresa la dimensione della difesa per la prevalenza assoluta del metodo intergovernativo, l’integrazione differenziata e cioè il tema dell’Europa a due velocità, l’inadeguata ripartizione delle competenze e last but not least il tema della incompleta democrazia europea.
Speriamo che la temperatura del silenzio della presidente Ursula von der Leyen sulla Conferenza per il futuro dell’Europa preluda ad un suo atto di rottura dell’apparente pax interistituzionale e degli inutili tri-dialoghi fra i presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio europeo e della Commissione europea.
Speriamo soprattutto che il Parlamento europeo comprenda rapidamente il tempo perso nella ricerca di un minimo comun denominatore con il Consiglio europeo e con il Consiglio e proponga alla Commissione una via alternativa alla Conferenza sul futuro dell’Europa, infragilita anch’essa dalle conseguenze del COVID-19, un’alternativa che passi dall’incontro fra la democrazia rappresentativa e quella partecipativa affinché questa legislatura diventi finalmente costituente per costruire una “unione vitale in un mondo fragile”.
Le attività del Movimento europeo
Si apre un’altra settimana densa di impegni in ambito europeo, dopo il primo discorso sullo Stato dell’Unione della Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, largamente dedicato ai nuovi obiettivi per il rilancio europeo, che pongono al centro l’ambiente, la digitalizzazione, una maggiore integrazione anche dei diversi sistemi sanitari e il ruolo dell’Europa nel mondo. Altrettanto importanti, nei giorni che ci aspettano, il Consiglio affari generali del prossimo 22 settembre e il Consiglio europeo speciale previsto per il 24 e 25 settembre, che focalizzerà l’attenzione sulla politica estera e in particolare sul delicato tema dei rapporti tra l’Ue e la Turchia.
Una volta definito brevemente il contesto in cui ci troviamo, cogliamo l’occasione per elencare alcuni eventi, sia quelli in cui il Movimento europeo è coinvolto in qualità di organizzatore, sia quelli ai quali partecipa come partner:
- Riunione Consiglio di Presidenza Movimento europeo, 22.09.2020
L’articolo 13 della Carta si sofferma su alcuni principi alla base della ricerca scientifica insieme alla dimensione artistica e delle condizioni nelle quali è possibile svolgerla. Suo presupposto essenziale è che possa essere svolta in libertà e infatti il primo comma afferma che “Le arti e la ricerca scientifica sono libere”. A ben vedere, la traduzione in italiano dell’articolo è stata effettuata all’indicativo presente, mentre in lingua inglese la forma utilizzata è quella dell’indicativo futuro. Sappiamo che, quando un testo normativo si esprime così, inquadra il tema in termini programmatici futuri, considerando perciò la possibilità che, nel momento in cui il testo viene redatto, l’affermazione del diritto di cui si sta parlando non sia piena. E in effetti, quella della effettiva e piena libertà delle arti e della ricerca scientifica, è una questione che solleva alcuni interrogativi. Se ne è occupato anche il prof. Gabriel Toggenburg, docente di diritto dell'Unione europea e diritti umani presso l'Università di Graz, sollevando per esempio il problema relativo alla sussistenza di tali diritti in uno Stato membro quale l’Ungheria. Spiega infatti il docente che “Secondo la Carta, la libertà accademica è più della libertà di avere opinioni in un contesto universitario, perché include non solo la ricerca e l'insegnamento sostanzialmente autonomi e liberi da interferenze statali, ma anche il suo quadro istituzionale e organizzativo. Pertanto, non è stata una sorpresa che l'Ungheria sia stata portata dinanzi alla Corte dell'UE in Lussemburgo”. Infatti, nel 2017, l’Ungheria ha introdotto una legislazione per cui, al fine di poter aprire un’università straniera in questo Stato membro, debba essere stipulato un accordo internazionale tra Budapest e il Paese d’origine degli atenei e, inoltre, questi ultimi siano tenuti a fornire gli stessi servizi anche nel proprio Paese d’origine. Tali precetti legislativi hanno posto all’attenzione l‘esistenza di una limitazione del diritto alla libertà di insegnamento in Ungheria, evidenziata dalla Commissione europea e in fase di valutazione da parte della Corte di Giustizia Ue. Non solo. Considerata la difficile situazione di tale Stato membro per quanto attiene al rispetto dello stato di diritto, sempre ricollegandoci al prof. Toggenburg, è bene ricordare come esista un rapporto tra l’affermazione del diritto alla libertà di ricerca e di insegnamento in uno Stato e i rispetto dei principi democratici.
Avendo finora citato solo il primo comma dell’articolo 13, ricordiamo qui anche il secondo: “La libertà accademica è rispettata”. Anche in questo caso, il modo utilizzato in lingua inglese è quello dell’indicativo futuro, a voler intendere che tale libertà sussista realmente se esercitata all’interno di un contesto democratico e che investe sul proprio futuro. Nello scenario attuale, in cui una enorme quantità di risorse è stata stanziata nel quadro del Next Generation EU, a cui si aggiunge la programmazione prevista con il prossimo bilancio europeo, è bene ricordarsene: i Paesi che avvieranno programmi quanto più possibile avanzati di ricerca scientifica e formazione sono quelli che riusciranno a rispondere meglio alla crisi, con effetti imprevedibilmente positivi sullo sviluppo futuro della comunità, oltre che sul livello di democraticità della stessa.
La giurisprudenza europea
Sono del 5 marzo scorso le conclusioni dell’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Ue, Juliane Kokott, in merito al ricorso della Commissione europea, proposto dinanzi alla Corte il 1° febbraio 2018, nei confronti dell’Ungheria, dopo l’approvazione in tale Stato membro, il 4 aprile 2017, di due modifiche della legge sull’istruzione superiore: “Ai sensi di tale legge, per gli istituti d’insegnamento superiore di paesi non membri del SEE, l’accesso ad un’attività in Ungheria o l’esercizio della medesima sono subordinati alla dimostrazione della conclusione di un accordo internazionale tra l’Ungheria e il loro paese d’origine; nel caso di Stati federali, tale accordo deve obbligatoriamente essere concluso dal governo centrale. Inoltre, l’attività di tutti gli istituti di insegnamento superiore esteri è subordinata alla condizione che la formazione di insegnamento superiore sia fornita anche nel rispettivo paese d’origine”. Tali modifiche hanno fatto sorgere la convinzione che si trattasse di disposizioni volte tra l’altro ad impedire all’Università dell’Europa centrale (CEU) di avere sedi in Ungheria. La CEU vede tra i suoi principali finanziatori le fondazioni “Open Society”, di proprietà di George Soros; forse non tutti sanno che Soros, pur avendo la principale sede dei suoi affari negli Stati Uniti d’America, ha origini ungheresi e che, a seguito dell’operare di questi precetti legislativi, ha dovuto cessare l’attività in Ungheria e trasferirsi a Vienna nel novembre 2019.
Come si può leggere nella parte introduttiva delle conclusioni dell’Avv. Kokott, “In questo contesto, la Commissione considera le nuove disposizioni non solo come una restrizione alla libera circolazione dei servizi, ma anche, in particolare, come una violazione della libertà delle scienze, sancita dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Inoltre, poiché uno dei due nuovi requisiti è applicabile solo agli istituti di insegnamento superiore di paesi non membri del SEE, il procedimento assume un’ulteriore dimensione specifica. In effetti, la Commissione contesta in sostanza all’Ungheria una violazione della normativa dell’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, in prosieguo: l’«OMC»), segnatamente del GATS. Nel presente procedimento la Corte è chiamata quindi a decidere anche in quale misura il procedimento per inadempimento possa fungere da strumento per assicurare l’attuazione del diritto commerciale internazionale e aumentarne l’efficacia”.
L’Avv. Kokott ha analizzato quindi il caso e le sue conclusioni, come è noto, assumono per la Corte la valenza di una proposta di decisione, non vincolante, ma basata su un esame indipendente ed imparziale di questioni di diritto sollevate. Anzitutto, l’Avv. Kokott ha valutato se ciascuno dei vari aspetti della questione rientri entro la sfera di competenza della Corte. Una volta risolto positivamente tale quesito, ha formulato le seguenti proposte di conclusione: “l’Ungheria ha violato l’articolo XVII dell’accordo generale sugli scambi di servizi, in combinato disposto con l’articolo 216, paragrafo 2, TFUE, nonché l’articolo 13, seconda frase, e l’articolo 14, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. […] l’Ungheria ha violato l’articolo 16 della direttiva 2006/123/CE, l’articolo 49 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 54 TFUE, l’articolo XVII dell’accordo generale sugli scambi di servizi, in combinato disposto con l’articolo 216, paragrafo 2, TFUE, nonché l’articolo 13, seconda frase, e l’articolo 14, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. […] L’Ungheria è condannata alle spese”.
Il discorso sullo stato dell’Unione della Presidente Ursula Von der Leyen ha trattato anche, pur senza menzionare espressamente la parola, il tema della Brexit. La Presidente si è soffermata sulle notevoli difficoltà riscontrate nei negoziati e oggi, a più di quattro anni dal referendum del 23 giugno 2016, rimane sul tavolo un accordo ancora difficile da raggiungere e da esaminare parola per parola. Per chi volesse approfondire la questione attraverso gli occhi di un profondo conoscitore della politica del Regno Unito, questa settimana i testi suggeriti sono più d’uno, del medesimo autore. Si tratta di un ex parlamentare laburista inglese e ministro per i rapporti con l’Europa durante il premierato Blair, Denis MacShane, che ha dedicato al tema della Brexit una serie di volumi. Inizialmente, l’autore si è soffermato sull’opzione dell’uscita del Regno Unito dalla Ue, pubblicando, nel gennaio 2015, “Brexit: How Britain Left Europe”, testo poi riproposto in una seconda edizione, poco dopo l’esito referendario. Ponendo l’attenzione sulle organizzazioni politiche avverse alla presenza del Regno Unito nella Ue, da esperto, Denis MacShane ha voluto delineare ilnuovo quadro politico – economico britannico e nella sua analisi erano state individuate, anche prima della sconfitta dei remainers, le ragioni che avrebbero portato all’uscita. Similmente, nel 2017, l’autore ha dato alle stampe, nel giugno 2017, il testo “Brexit, No Exit: Why (in the End) Britain Won't Leave Europe”; al suo interno, sostiene che la Brexit non porterà ad una rottura totale con l’Europa e che, sebbene attraverso un percorso tortuoso e pieno di incertezze, i rapporti con l’Unione europea continueranno a rappresentare una peculiarità della politica inglese anche in futuro. L’autore ha poi continuato in altri testi ad occuparsi della questione, considerato l’alto livello di incertezza tuttora presente, ma questi due suoi spunti, poiché guardano al futuro prossimo e a quello a lungo termine, possono essere tenuti in considerazione per poter disporre di un quadro chiaro sulla vicenda Brexit in sé.
Edito pochi mesi prima dello scoppio della crisi del coronavirus, il testo “Stabilità finanziaria, unione bancaria e costituzione” di Fiammetta Salmoni, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi, presenta elementi di interesse perché, partendo dalla crisi finanziaria del 2007, pone l’attenzione sul ruolo delle istituzioni internazionali in risposta ad essa. In particolare, analizza tre misure di cui gli Stati devono tener conto nel promuovere le proprie politiche: il principio del pareggio di bilancio, la sottoscrizione del trattato MES e l’istituzione dell’Unione bancaria europea. La docente, in particolare, pone l’attenzione sui profili di costituzionalità di tali strumenti, in base alla teoria dei controlimiti; c’è infatti da valutare il rapporto tra interventi di tale portata transnazionale e i principi costituzionali vigenti in ciascuno Stato membro. Dopo gli accordi del Recovery plan in risposta all’emergenza che sta caratterizzando questi tempi, il testo può essere tenuto in considerazione per rileggere le sfide di allora attraverso le lenti di oggi, dopo la decisione di un consistente intervento delle istituzioni europee in risposta alla crisi pandemica globale.