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La disinformazione: questa settimana vi proponiamo un caso affrontato negli anni scorsi dalla Corte di Giustizia dell’Ue, interessante per una serie di motivi. Le parti interessate sono il Consiglio dell’UE e un cittadino russo. È da premettere che “Il 17 marzo 2014, il Consiglio dell’Unione europea ha adottato, sulla base dell’articolo 29 TUE, la decisione 2014/145/PESC, concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (GU 2014, L 78, pag.16). Nella stessa data, il Consiglio ha adottato, sulla base dell’articolo 215, paragrafo 2, TFUE, il regolamento (UE) n. 269/2014, concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minaccino l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (GU 2014, L 78, pag. 6).

Con decisione di esecuzione 2014/151/PESC del Consiglio, del 21 marzo 2014, che attua la decisione 2014/145 (GU 2014, L 86, pag. 30), e con regolamento di esecuzione (UE) n. 284/2014 del Consiglio, del 21 marzo 2014, che attua il regolamento n. 269/2014 (GU 2014, L 86, pag. 27), il nome del ricorrente, sig. Dmitrii Konstantinovich Kiselev, è stato iscritto negli elenchi delle persone interessate alle misure restrittive previste da detti regolamento e decisione (in prosieguo: gli «elenchi in questione») con la seguente motivazione:

«Nominato, con decreto presidenziale del 9 dicembre 2013, capo dell’agenzia di stampa “Rossiya Segodnya” dello Stato federale russo. Figura centrale della propaganda governativa a sostegno dello schieramento delle forze russe in Ucraina»”.

La principale misura restrittiva in questi casi è quella del congelamento dei fondi e delle risorse economiche “appartenenti a, o posseduti, detenuti o controllati da […] persone fisiche responsabili di azioni o politiche, o che sostengono attivamente o realizzano dette azioni o politiche, che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina, o la stabilità o la sicurezza in Ucraina, o che ostacolano l’operato delle organizzazioni internazionali in Ucraina, e persone fisiche o giuridiche, entità o organismi ad esse associati”.

Questo caso è di particolare interesse. Anzitutto, perché riguarda i rapporti tra le decisioni del Consiglio dell’Ue e quelle di un cittadino di uno Stato terzo che pure, nonostante la sua affermazione del diritto alla libertà di espressione, era già stato destinatario di un provvedimento da parte del Collegio pubblico russo che decide sulle denunce per fatti di stampa. Infatti, tale collegio, come si può apprendere leggendo la sentenza, “ha adottato una risoluzione contro il ricorrente a seguito di una denuncia concernente la trasmissione «Vesti Nedeli» («Novità della settimana»), da lui animata. In tale occasione il collegio russo ha considerato che le dichiarazioni del ricorrente nel corso della trasmissione Vesti Nedeli dell’8 dicembre 2013 costituissero propaganda che presentava i fatti accaduti il 30 novembre e il 1o dicembre 2013 in piazza dell’Indipendenza a Kiev (Ucraina) in modo non del tutto attendibile e anzi confliggente con i principi di responsabilità sociale, di innocuità, di verità, di imparzialità e di giustizia che si imponevano ai giornalisti, e ciò al fine di manipolare l’opinione pubblica russa con tecniche di disinformazione”.

Tuttavia, il 22 maggio 2015, Dmitrii Konstantinovich Kiselev ha presentato ricorso contro le misure restrittive stabilite nei suoi confronti da parte del Consiglio dell’Ue, aprendo un contenzioso poi risoltosi con sentenza della Corte del 15 giugno 2017. Ben sei i motivi del suo ricorso: “il primo, un errore manifesto di valutazione riguardo all’applicazione al suo caso del criterio di designazione enunciato agli articoli 1, paragrafo 1, lettera a), e 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione 2014/145 modificata nonché all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 269/2014 modificato, il secondo, la violazione del diritto alla libertà di espressione, il terzo, la violazione dei diritti della difesa e del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, il quarto, la violazione dell’obbligo di motivazione, il quinto, dedotto in subordine, il fatto che il predetto criterio sarebbe incompatibile con il diritto alla libertà di espressione, e per questo illegittimo, se permettesse l’adozione di misure restrittive nei confronti di giornalisti nell’esercizio di tale diritto e, il sesto, la violazione dell’accordo di partenariato e di cooperazione che istituisce un partenariato tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Federazione russa, dall’altra”. La sentenza della Corte ha rigettato però il ricorso su tutti i punti e condannato il ricorrente al pagamento delle spese. Per approfondire, clicca qui.

 

 

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La Carta dei diritti fondamentali si sofferma sul tema del lavoro in numerosi articoli. Ma ce n’è uno, l’articolo 15, che sintetizza quali siano i principi alla base del diritto al lavoro e alla libera circolazione dei lavoratori nello spazio Schengen. Come già si è visto, il perimetro di applicazione di tali diritti è alquanto esteso, perché si rivolge ad ogni individuo, includendo perciò sia ogni cittadino dell’Unione, come recita il comma 2, sia i cittadini dei paesi terzi autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri, comma 3. Ma partiamo dall’inizio: l’articolo 15 inizia con l’affermare che “ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata”. Questo è già di per sé un comma che afferma non solo il diritto al lavoro, quando quello a scegliere liberamente la propria attività, opponendosi quindi al lavoro forzato e a tutte le possibili forme di costrizione e condizionamento di cui ancora oggi purtroppo le cronache quotidiane confermano l’esistenza. Inoltre, non facendo riferimento al territorio dell’Unione, che pure è quello di applicazione della Carta, sembra voler affermare un principio universale che dovrebbe poter valere ovunque nel mondo.

Lo spazio europeo viene menzionato invece nei commi 2 e 3, quando si afferma che la libertà, più che il diritto, di “cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro” è garantita per tutti i cittadini europei. Non solo. Come si è detto, il comma 3 è dedicato ai cittadini dei paesi terzi,  i quali, se “autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri, hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione”. In poche righe vengono sintetizzati una serie di principi che, se applicati, possono da un lato contribuire a sviluppare un concetto di lavoro dignitoso, dall’altro generare benessere per la collettività: i cittadini dovrebbero essere infatti ulteriormente rassicurati dal fatto di sapere che i loro acquisti avvengono al termine di un ciclo produttivo sano e rispettoso dei diritti dei lavoratori.

 

 

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Si entra nel vivo della ripresa dei lavori, questa settimana, con due momenti di fondamentale importanza quali la prossima sessione plenaria del Parlamento europeo, dal 14 al 17 settembre, e il discorso sullo Stato dell’Unione della Presidente Von der Leyen, il prossimo 16 settembre. Per approfondire questi avvenimenti e poter disporre di una visione d’insieme, vi rimandiamo alla sezione “Documenti chiave”, in cui potrete entrare nei dettagli di tutto ciò che è all’ordine del giorno e troverete anche una serie di informazioni attinenti al Consiglio europeo e all’Eurogruppo, diffuse al termine di importanti incontri svoltisi sul Recovery plan e sugli accordi per il prossimo bilancio. 

Riportiamo poi il link ad alcune iniziative alle quali il Movimento europeo prenderà parte attiva:

 

 

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