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Se ci chiedessero di suggerire alla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, delle letture per preparare il suo discorso sullo “stato dell’Unione” del prossimo 16 settembre, le diremmo di accantonare tutta l’abbondante documentazione prodotta dalle istituzioni europee dall’inizio della pandemia e di rileggere gli “avertissement à l’Europe” scritti da Thomas Mann e pubblicati in Francia nel 1937 da André Gide e un anno dopo a Stoccolma dalla casa editrice Bermann Fischer con il titolo “Achtung Europa”.
Alle nostre lettrici e ai nostri lettori italiani suggeriamo poi la più recente edizione di Achtung Europa del 2017 in Oscar Mondadori con prefazione di Giorgio Napolitano aggiungendo anche la lettura di una raccolta di discorsi e scritti di Piero Calamandrei pubblicata quest’anno da People Idee a cura di Enzo Di Salvatore: Questa nostra Europa. Fra i discorsi di Calamandrei attiriamo la vostra attenzione su “La Convocazione dell’assemblea costituente europea” al II Congresso dell’UEF a Roma dal 7 all’11 novembre 1948.
L’Unione europea, le sue cittadini e i suoi cittadini insieme alle istituzioni che li rappresentano ai vari livelli non hanno bisogno di una elencazione autocelebrativa di tutti i provvedimenti finanziari proposti, adottati o in un buona parte ancora sub judice (essendo i giudici di ultima istanza i parlamenti nazionali e, in minima parte, il Parlamento europeo) legati alla post-pandemia.
Quest’elenco può essere scaricato facilmente dai siti della Commissione, del Consiglio e del Parlamento europeo e, seppure con molte confusioni e imprecisioni, è stato più volte pubblicato dai media e dalla stampa mentre l’opinione pubblica si è in parte familiarizzata con gli acronimi nati dalla fervida immaginazione europea: Sure, MES, NGEU, REACT EU, INVEST EU, RESCUE, MFF…
Si tratta di un fiume di denaro (oltre 1800 miliardi di Euro) che si unisce a quelli messi a disposizione dagli Stati membri e che, globalmente, è superiore a quello deciso dal governo federale USA - o, per chi ama i paragoni storici, dal Piano Marshall - allo scopo di dare all’Unione europea i mezzi finanziari per affrontare l’emergenza economica provocata dalla pandemia del COVID-19.
Non intendiamo certo sottovalutare gli effetti economici di queste misure ma suggeriamo alla Presidente Ursula von der Leyen di lanciare piuttosto un “monito agli Europei” sullo stato dell’Unione oggi, in un mondo scosso da problemi immensi di fronte ai quali le organizzazioni internazionali e i loro leader si sono mostrati fino ad ora incapaci di proporre e adottare soluzioni a lungo termine.
Le une e gli altri sono rimasti sordi al grido di tutti coloro che chiedono giustizia, da Lesbo a Minsk, da Hong Kong a Santiago del Cile, da Beirut a Varsavia e in molte città degli Stati Uniti al monito Black Lives Matter, da Sofia ad Algeri, in Sudan e in Thailandia per non parlare della mobilitazione dei giovani richiamati da Greta Thunberg nelle rete internazionale Friday for future.
Questa mobilitazione fu anticipata nel settembre 2015 dalle Nazioni Unite con l’Agenda 2030 per i diciassette obiettivi dello sviluppo sostenibile e sintetizzata nella promessa no-one left behind.
Mancano dieci anni al 2030 ma la maggioranza di quegli obiettivi è ben lontana dalla loro realizzazione.
E l’Unione europea?
Essa è silente in tutti i teatri internazionali anche laddove questi teatri sono alle sue frontiere preferendo usare la carota delle promesse al bastone delle sanzioni o all’esigenza del rispetto del diritto internazionale.
In questo quadro e a venticinque anni dall’avvio del processo di Barcellona nella Conferenza del 27 e 28 novembre 1995 il partenariato euromediterraneo è inesistente nonostante gli interessi strategici dell’Unione europea nella regione.
Con quale posizione comune si presenterà l’Unione europea al vertice G20 di Riyadh il prossimo 20 e 21 novembre?
Essa è incapace di affrontare collettivamente il governo dei flussi migratori di chi attraversa i suoi confini fuggendo dalla fame, dalle guerre, dai disastri ambientali e dalla espropriazione delle terre.
Essa ha assistito impotente allo scomparire dell’obiettivo di un mondo fondato sul multilateralismo essendo incapace di definire una posizione comune sulla riforma delle Nazioni Unite e piegandosi al ricatto delle sovranità assolute che condizionano l’agenda internazionale e che comandano a Washington, a Mosca, a Pechino, ad Ankara, a Brasilia, al Cairo e a Pyongyang.
La politica estera e di sicurezza dell’Unione europea dovrebbe essere fondata sul metodo delle decisioni a maggioranza e su due principi irrinunciabili: il ripudio della guerra e dunque di soluzioni militari per dirimere le controversie internazionali insieme al rispetto dei diritti fondamentali e delle convenzioni che li hanno resi vincolanti.
Al suo interno, il Pilastro Sociale di Göteborg è ancora al livello di una dichiarazione solenne, l’obiettivo del completamento dell’Unione economica e monetaria con l’eliminazione della sua zoppia (come la chiamava Carlo Azeglio Ciampi) è stato accantonato da tempo mentre proseguono interminabili i negoziati sull’unione bancaria, la dimensione delle realtà territoriali (aree interne e città) è ignorata, la dipendenza energetica e tecnologica è crescente e il divario generazionale si è fatto più profondo.
L’agenda digitale è di là da venire anche se una svolta potrebbe venire dal “piano di azione per la democrazia” e dal pacchetto legislativo “Digital Service Act” per riscrivere le regole europee sulle piattaforme online in preparazione nei servizi della Commissione europea.
Serve con urgenza un atto di coraggio prima culturale e poi politico ma questo atto potrà essere compiuto dalle istituzioni solo se esse sentiranno che hanno il sostegno della maggioranza delle cittadine e dei cittadini europei.
Per questo i moniti devono rivolgersi a tutta l’Europa come essi furono rivolti a tutti gli Europei da Thomas Mann dal 1922 al 1945.
Speriamo che dal Palazzo del Parlamento europeo a Bruxelles Ursula von der Leyen sappia richiamarsi all’Europa dei valori e non a quella del valore del denaro indicando la via per l’unità politica europea.
Il discorso sullo stato dell’Unione e i “moniti all’Europa”
Se ci chiedessero di suggerire alla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, delle letture per preparare il suo discorso sullo “stato dell’Unione” del prossimo 16 settembre, le diremmo di accantonare tutta l’abbondante documentazione prodotta dalle istituzioni europee dall’inizio della pandemia e di rileggere gli “avertissement à l’Europe” scritti da Thomas Mann e pubblicati in Francia nel 1937 da André Gide e un anno dopo a Stoccolma dalla casa editrice Bermann Fischer con il titolo “Achtung Europa”.
Alle nostre lettrici e ai nostri lettori italiani suggeriamo poi la più recente edizione di Achtung Europa del 2017 in Oscar Mondadori con prefazione di Giorgio Napolitano aggiungendo anche la lettura di una raccolta di discorsi e scritti di Piero Calamandrei pubblicata quest’anno da People Idee a cura di Enzo Di Salvatore: Questa nostra Europa. Fra i discorsi di Calamandrei attiriamo la vostra attenzione su “La Convocazione dell’assemblea costituente europea” al II Congresso dell’UEF a Roma dal 7 all’11 novembre 1948.
L’Unione europea, le sue cittadini e i suoi cittadini insieme alle istituzioni che li rappresentano ai vari livelli non hanno bisogno di una elencazione autocelebrativa di tutti i provvedimenti finanziari proposti, adottati o in un buona parte ancora sub judice (essendo i giudici di ultima istanza i parlamenti nazionali e, in minima parte, il Parlamento europeo) legati alla post-pandemia.
Quest’elenco può essere scaricato facilmente dai siti della Commissione, del Consiglio e del Parlamento europeo e, seppure con molte confusioni e imprecisioni, è stato più volte pubblicato dai media e dalla stampa mentre l’opinione pubblica si è in parte familiarizzata con gli acronimi nati dalla fervida immaginazione europea: Sure, MES, NGEU, REACT EU, INVEST EU, RESCUE, MFF…
Si tratta di un fiume di denaro (oltre 1800 miliardi di Euro) che si unisce a quelli messi a disposizione dagli Stati membri e che, globalmente, è superiore a quello deciso dal governo federale USA - o, per chi ama i paragoni storici, dal Piano Marshall - allo scopo di dare all’Unione europea i mezzi finanziari per affrontare l’emergenza economica provocata dalla pandemia del COVID-19.
Non intendiamo certo sottovalutare gli effetti economici di queste misure ma suggeriamo alla Presidente Ursula von der Leyen di lanciare piuttosto un “monito agli Europei” sullo stato dell’Unione oggi, in un mondo scosso da problemi immensi di fronte ai quali le organizzazioni internazionali e i loro leader si sono mostrati fino ad ora incapaci di proporre e adottare soluzioni a lungo termine.
Le une e gli altri sono rimasti sordi al grido di tutti coloro che chiedono giustizia, da Lesbo a Minsk, da Hong Kong a Santiago del Cile, da Beirut a Varsavia e in molte città degli Stati Uniti al monito Black Lives Matter, da Sofia ad Algeri, in Sudan e in Thailandia per non parlare della mobilitazione dei giovani richiamati da Greta Thunberg nelle rete internazionale Friday for future.
Questa mobilitazione fu anticipata nel settembre 2015 dalle Nazioni Unite con l’Agenda 2030 per i diciassette obiettivi dello sviluppo sostenibile e sintetizzata nella promessa no-one left behind.
Mancano dieci anni al 2030 ma la maggioranza di quegli obiettivi è ben lontana dalla loro realizzazione.
E l’Unione europea?
Essa è silente in tutti i teatri internazionali anche laddove questi teatri sono alle sue frontiere preferendo usare la carota delle promesse al bastone delle sanzioni o all’esigenza del rispetto del diritto internazionale.
In questo quadro e a venticinque anni dall’avvio del processo di Barcellona nella Conferenza del 27 e 28 novembre 1995 il partenariato euromediterraneo è inesistente nonostante gli interessi strategici dell’Unione europea nella regione.
Con quale posizione comune si presenterà l’Unione europea al vertice G20 di Riyadh il prossimo 20 e 21 novembre?
Essa è incapace di affrontare collettivamente il governo dei flussi migratori di chi attraversa i suoi confini fuggendo dalla fame, dalle guerre, dai disastri ambientali e dalla espropriazione delle terre.
Essa ha assistito impotente allo scomparire dell’obiettivo di un mondo fondato sul multilateralismo essendo incapace di definire una posizione comune sulla riforma delle Nazioni Unite e piegandosi al ricatto delle sovranità assolute che condizionano l’agenda internazionale e che comandano a Washington, a Mosca, a Pechino, ad Ankara, a Brasilia, al Cairo e a Pyongyang.
La politica estera e di sicurezza dell’Unione europea dovrebbe essere fondata sul metodo delle decisioni a maggioranza e su due principi irrinunciabili: il ripudio della guerra e dunque di soluzioni militari per dirimere le controversie internazionali insieme al rispetto dei diritti fondamentali e delle convenzioni che li hanno resi vincolanti.
Al suo interno, il Pilastro Sociale di Göteborg è ancora al livello di una dichiarazione solenne, l’obiettivo del completamento dell’Unione economica e monetaria con l’eliminazione della sua zoppia (come la chiamava Carlo Azeglio Ciampi) è stato accantonato da tempo mentre proseguono interminabili i negoziati sull’unione bancaria, la dimensione delle realtà territoriali (aree interne e città) è ignorata, la dipendenza energetica e tecnologica è crescente e il divario generazionale si è fatto più profondo.
L’agenda digitale è di là da venire anche se una svolta potrebbe venire dal “piano di azione per la democrazia” e dal pacchetto legislativo “Digital Service Act” per riscrivere le regole europee sulle piattaforme online in preparazione nei servizi della Commissione europea.
Serve con urgenza un atto di coraggio prima culturale e poi politico ma questo atto potrà essere compiuto dalle istituzioni solo se esse sentiranno che hanno il sostegno della maggioranza delle cittadine e dei cittadini europei.
Per questo i moniti devono rivolgersi a tutta l’Europa come essi furono rivolti a tutti gli Europei da Thomas Mann dal 1922 al 1945.
Speriamo che dal Palazzo del Parlamento europeo a Bruxelles Ursula von der Leyen sappia richiamarsi all’Europa dei valori e non a quella del valore del denaro indicando la via per l’unità politica europea.
Le attività del Movimento europeo
Si entra nel vivo della ripresa dei lavori, questa settimana, con due momenti di fondamentale importanza quali la prossima sessione plenaria del Parlamento europeo, dal 14 al 17 settembre, e il discorso sullo Stato dell’Unione della Presidente Von der Leyen, il prossimo 16 settembre. Per approfondire questi avvenimenti e poter disporre di una visione d’insieme, vi rimandiamo alla sezione “Documenti chiave”, in cui potrete entrare nei dettagli di tutto ciò che è all’ordine del giorno e troverete anche una serie di informazioni attinenti al Consiglio europeo e all’Eurogruppo, diffuse al termine di importanti incontri svoltisi sul Recovery plan e sugli accordi per il prossimo bilancio.
Riportiamo poi il link ad alcune iniziative alle quali il Movimento europeo prenderà parte attiva:
La Carta dei diritti fondamentali si sofferma sul tema del lavoro in numerosi articoli. Ma ce n’è uno, l’articolo 15, che sintetizza quali siano i principi alla base del diritto al lavoro e alla libera circolazione dei lavoratori nello spazio Schengen. Come già si è visto, il perimetro di applicazione di tali diritti è alquanto esteso, perché si rivolge ad ogni individuo, includendo perciò sia ogni cittadino dell’Unione, come recita il comma 2, sia i cittadini dei paesi terzi autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri, comma 3. Ma partiamo dall’inizio: l’articolo 15 inizia con l’affermare che “ogni individuo ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata”. Questo è già di per sé un comma che afferma non solo il diritto al lavoro, quando quello a scegliere liberamente la propria attività, opponendosi quindi al lavoro forzato e a tutte le possibili forme di costrizione e condizionamento di cui ancora oggi purtroppo le cronache quotidiane confermano l’esistenza. Inoltre, non facendo riferimento al territorio dell’Unione, che pure è quello di applicazione della Carta, sembra voler affermare un principio universale che dovrebbe poter valere ovunque nel mondo.
Lo spazio europeo viene menzionato invece nei commi 2 e 3, quando si afferma che la libertà, più che il diritto, di “cercare un lavoro, di lavorare, di stabilirsi o di prestare servizi in qualunque Stato membro” è garantita per tutti i cittadini europei. Non solo. Come si è detto, il comma 3 è dedicato ai cittadini dei paesi terzi, i quali, se “autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri, hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione”. In poche righe vengono sintetizzati una serie di principi che, se applicati, possono da un lato contribuire a sviluppare un concetto di lavoro dignitoso, dall’altro generare benessere per la collettività: i cittadini dovrebbero essere infatti ulteriormente rassicurati dal fatto di sapere che i loro acquisti avvengono al termine di un ciclo produttivo sano e rispettoso dei diritti dei lavoratori.
La giurisprudenza europea
La disinformazione: questa settimana vi proponiamo un caso affrontato negli anni scorsi dalla Corte di Giustizia dell’Ue, interessante per una serie di motivi. Le parti interessate sono il Consiglio dell’UE e un cittadino russo. È da premettere che “Il 17 marzo 2014, il Consiglio dell’Unione europea ha adottato, sulla base dell’articolo 29 TUE, la decisione 2014/145/PESC, concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (GU 2014, L 78, pag.16). Nella stessa data, il Consiglio ha adottato, sulla base dell’articolo 215, paragrafo 2, TFUE, il regolamento (UE) n. 269/2014, concernente misure restrittive relative ad azioni che compromettono o minaccino l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina (GU 2014, L 78, pag. 6).
Con decisione di esecuzione 2014/151/PESC del Consiglio, del 21 marzo 2014, che attua la decisione 2014/145 (GU 2014, L 86, pag. 30), e con regolamento di esecuzione (UE) n. 284/2014 del Consiglio, del 21 marzo 2014, che attua il regolamento n. 269/2014 (GU 2014, L 86, pag. 27), il nome del ricorrente, sig. Dmitrii Konstantinovich Kiselev, è stato iscritto negli elenchi delle persone interessate alle misure restrittive previste da detti regolamento e decisione (in prosieguo: gli «elenchi in questione») con la seguente motivazione:
«Nominato, con decreto presidenziale del 9 dicembre 2013, capo dell’agenzia di stampa “Rossiya Segodnya” dello Stato federale russo. Figura centrale della propaganda governativa a sostegno dello schieramento delle forze russe in Ucraina»”.
La principale misura restrittiva in questi casi è quella del congelamento dei fondi e delle risorse economiche “appartenenti a, o posseduti, detenuti o controllati da […] persone fisiche responsabili di azioni o politiche, o che sostengono attivamente o realizzano dette azioni o politiche, che compromettono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina, o la stabilità o la sicurezza in Ucraina, o che ostacolano l’operato delle organizzazioni internazionali in Ucraina, e persone fisiche o giuridiche, entità o organismi ad esse associati”.
Questo caso è di particolare interesse. Anzitutto, perché riguarda i rapporti tra le decisioni del Consiglio dell’Ue e quelle di un cittadino di uno Stato terzo che pure, nonostante la sua affermazione del diritto alla libertà di espressione, era già stato destinatario di un provvedimento da parte del Collegio pubblico russoche decide sulle denunce per fatti di stampa. Infatti, tale collegio, come si può apprendere leggendo la sentenza, “ha adottato una risoluzione contro il ricorrente a seguito di una denuncia concernente la trasmissione «Vesti Nedeli» («Novità della settimana»), da lui animata. In tale occasione il collegio russo ha considerato che le dichiarazioni del ricorrente nel corso della trasmissione Vesti Nedeli dell’8 dicembre 2013 costituissero propaganda che presentava i fatti accaduti il 30 novembre e il 1o dicembre 2013 in piazza dell’Indipendenza a Kiev (Ucraina) in modo non del tutto attendibile e anzi confliggente con i principi di responsabilità sociale, di innocuità, di verità, di imparzialità e di giustizia che si imponevano ai giornalisti, e ciò al fine di manipolare l’opinione pubblica russa con tecniche di disinformazione”.
Tuttavia, il 22 maggio 2015, Dmitrii Konstantinovich Kiselev ha presentato ricorso contro le misure restrittive stabilite nei suoi confronti da parte del Consiglio dell’Ue, aprendo un contenzioso poi risoltosi con sentenza della Corte del 15 giugno 2017. Ben sei i motivi del suo ricorso: “il primo, un errore manifesto di valutazione riguardo all’applicazione al suo caso del criterio di designazione enunciato agli articoli 1, paragrafo 1, lettera a), e 2, paragrafo 1, lettera a), della decisione 2014/145 modificata nonché all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 269/2014 modificato, il secondo, la violazione del diritto alla libertà di espressione, il terzo, la violazione dei diritti della difesa e del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva, il quarto, la violazione dell’obbligo di motivazione, il quinto, dedotto in subordine, il fatto che il predetto criterio sarebbe incompatibile con il diritto alla libertà di espressione, e per questo illegittimo, se permettesse l’adozione di misure restrittive nei confronti di giornalisti nell’esercizio di tale diritto e, il sesto, la violazione dell’accordo di partenariato e di cooperazione che istituisce un partenariato tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Federazione russa, dall’altra”. La sentenza della Corte ha rigettato però il ricorso su tutti i punti e condannato il ricorrente al pagamento delle spese. Per approfondire, clicca qui.
Consigli di lettura
Edito pochi mesi prima dello scoppio della crisi del coronavirus, il testo “Stabilità finanziaria, unione bancaria e costituzione” di Fiammetta Salmoni, professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi, presenta elementi di interesse perché, partendo dalla crisi finanziaria del 2007, pone l’attenzione sul ruolo delle istituzioni internazionali in risposta ad essa. In particolare, analizza tre misure di cui gli Stati devono tener conto nel promuovere le proprie politiche: il principio del pareggio di bilancio, la sottoscrizione del trattato MES e l’istituzione dell’Unione bancaria europea. La docente, in particolare, pone l’attenzione sui profili di costituzionalità di tali strumenti, in base alla teoria dei controlimiti; c’è infatti da valutare il rapporto tra interventi di tale portata transnazionale e i principi costituzionali vigenti in ciascuno Stato membro. Dopo gli accordi del Recovery plan in risposta all’emergenza che sta caratterizzando questi tempi, il testo può essere tenuto in considerazione per rileggere le sfide di allora attraverso le lenti di oggi, dopo la decisione di un consistente intervento delle istituzioni europee in risposta alla crisi pandemica globale.
Gianni Borsa è corrispondente da Bruxelles per l'agenzia di stampa Sir, Servizio informazione religiosa. Si occupa di Unione europea sia in veste di giornalista, che di autore di libri. Uno dei suoi testi più recenti ha un titolo interessante per la nostra sezione e lo proponiamo alla vostra attenzione: “Europa. Parole per capire, ascoltare, capirsi”, pubblicato 2019. Si comprende agevolmente l'intenzione di andare in profondità e Borsa, alla domanda su come è nato questo suo lavoro, l'autore risponde:
“L'idea era quella di fornire una lettura semplice, introduttiva, ma al contempo critica rispetto al processo di integrazione europea appena prima delle elezioni del Parlamento nel 2019; ho accettato una proposta da parte della casa editrice cattolica “In dialogo”, di Milano, che proponeva un confronto forse un po' rischioso, ma piacevole, tra un brano della Bibbia e il processo di integrazione europea. Il brano in questione è “La casa fondata sulla roccia”. Il testo, perciò, è diviso in due parti, una prima di esegesi di questa pagina biblica, a cura del bravissimo biblista Isacco Pagani e quattro miei capitoli sul processo di integrazione europea. La chiave di lettura è la seguente: il processo di integrazione europea funziona – o funzionerebbe – se fosse come quello di una casa fondata sulla roccia, ovvero con le fondamenta profonde, storiche, con la possibilità di edificare una casa che ospiti una comunità che si ritrova attorno a dei punti comuni, appunto i popoli europei, e soprattutto che sia un progetto comunitario che non si fermi all'idea dei padri fondatori, ma che ogni giorno si adegua alle novità; il processo di integrazione europea, infatti, segue il corso della storia”.
Un'Europa, quindi, sempre in cammino ...
ll processo asce dopo la seconda guerra mondiale per la ricostruzione dei Paesi che aderiscono alla CEE e per costruire un'economia solidale forte, capace di condividere le ricchezze prodotte, arriva agli anni '60, '70 ' 80 con nuove sfide, rispetto alle quali inventa ogni volta risposte diverse; si pensi al processo apertosi con il 1989, alla caduta del muro di Berlino con cui si è avuto il passaggio da una piccola ad una grande Europa, che “respira con due polmoni”, dell'Est e dell'Ovest. Si pensi ai trattati che sono seguiti: Maastricht, Amsterdam, Nizza, il progetto poi fallito di Costituzione, Lisbona. Nel frattempo la casa comune passa da sei Stati fondatori a 28, poi 27 dopo la Brexit. Si sono costantemente inventate nuove forme per stare insieme. Le ultime sfide – crisi economico finanziaria del 2007, crisi migratoria del 2015, crisi della pandemia del 2020 – pongono al centro la grande questione di costruire rapporti di solidarietà, attraverso la quale creare nuove forme dello stare insieme. L'Europa è quindi un cantiere sempre aperto, non è uno stato ma una forma di condivisione e costruzione solidale di comunità aperta al nuovo.
Il discorso della solidarietà europea spesso viene criticato perché l'Europa viene vista come un progetto concentrato solo sulla dimensione economica, delle élite della finanza; come un'unione monetaria senza un'anima. Qual è la posizione del libro in merito?
Occorre riconoscere che la costruzione europea parte dall'economia perché vi era la necessità di ricostruire dopo la guerra, di dare lavoro, di uscire dalla fame e dalla distruzione. Economia, del resto, significa produzione di benessere che può essere condiviso, ma è anche vero che oggi bisogna tener conto della dimensione politica. Le istituzioni europee sono politiche e occorrerebbe più dimensione politica. Ritengo che occorrerebbe non “più Europa”, ma “un'Europa più”: più funzionale, più efficace, più concreta, più coesa, più solida, più leggera, più aperta, più vicina ai cittadini perché possa essere apprezzata; quindi un'Europa anche più politica, là dove la politica serve a dare più diritti ai cittadini, a tutelare le libertà, i diritti, a costruire un ambiente nel quale l'economia stessa possa svilupparsi sul piano del mercato ma anche su quello dell'economia sociale.
Come conciliare le due dimensioni?
La solidarietà dev'essere uno stile e un metro della cooperazione economica, quindi anche un mezzo attraverso cui si costruisce l'Europa. C'è chi critica la costruzione europea per eccesso di solidarietà, nel senso che l'Europa tende a superare i confini nazionali. Ma se lo fa, non è per mortificare le sovranità nazionali, quanto perché si muove in uno scenario più ampio, che è quello dell'integrazione comunitaria. Oggi come oggi, i competitor dell'Europa sono la Cina, la Russia, gli Stati Uniti, il Brasile, il Sudafrica, il Giappone, il Messico: sono giganteschi e ciascun singolo paese europeo non avrebbe voce in questo mondo, ecco perché costruire una sovranità europea che dà più forza alla sovranità nazionale. I populisti e i nazionalisti, da questo punto di vista, sono nemici dell'integrazione europea, ma lo sono anche degli stessi stati nazionali, perché vorrebbero richiuderli entro gli angusti spazi della sovranità nazionale, portandoli all'irrilevanza, perché gli stati nazionali non bastano più. L'Europa può essere la risposta giusta laddove le diamo la forza per vivere il nostro tempo.
In che modo l'Europa può riuscirci?
Pongo qui una questione che mi sta a cuore; l'Europa parte dall'esigenza della cooperazione, ma fin dalla sua origine, con la dichiarazione Schuman del 1950, l'Europa ha avuto come primo obiettivo quello di costruire la pace come obiettivo superiore, come pre-condizione per la crescita e tutti gli Stati membri dell'Unione hanno vissuto da allora in pace: un sogno che è diventato realtà, si direbbe. Ebbene, oggi siamo di fronte ad una realtà che ha bisogno di un sogno e questo sogno può essere l'Europa, però è vero che i cittadini hanno bisogno di percepirlo come tale, come grande obiettivo, come casa comune e la Conferenza sul futuro dell'Europa – forse in partenza nel prossimo autunno – potrebbe delineare alcuni passi necessari. Occorre però rimettere al centro la cittadinanza europea, occorre che i giornalisti raccontino meglio l'Europa, che i politici non puntino solo ai consensi, abbiamo bisogno di simboli forti per sentire l'Europa più vicina: non bastano la bandiera, l'inno, la moneta. Il racconto di un'Europa che crea risultati concreti è fondamentale: per esempio con l'Erasmus, con il Recovery plan deciso in questi pochissimi mesi. Quando vedremo sfilare alle Olimpiadi gli atleti europei con la bandiera blu dell'Unione, avremo dato un segnale forte di costruzione europea; certo, è solo un esempio, poi gli atleti concorreranno per il proprio Stato, ma è per far intendere che i cittadini hanno bisogno di sentirsi europei e che l'Europa è lì per rispondere alle loro esigenze.
Quale posizione prende il libro sui rapporti Europa – mondo, quello dove si più manifesta l'assenza di chiarezza e coerenza dell'Europa?
Sappiamo che la questione della politica estera è una delle incompletezze di cui soffre l'Ue. È affidata ancora ad un accordo unanime in Consiglio e ciò blocca la costruzione di una vera politica estera di respiro mondiale. Rispetto alle grandi questioni estere, come la Siria, la Libia, in Bielorussia, in Ucraina, prima ancora il Kuwait, l'Europa non ha una voce comune. Manca la capacità decisionale, da prendere attraverso una maggioranza semplice o qualificata, ma mancano anche gli strumenti per una politica estera: una politica commerciale comune (su questo punto, qualcosa si sta muovendo), una politica comune di lotta al cambiamento climatico e di difesa dell'ambiente, una politica di sicurezza e militare comune. Avendo degli eserciti per la politica di peace keeping, occorrerebbe che fossero integrati: un altro grande passaggio che l'Europa prima o poi dovrà fare e spero che la Conferenza sul futuro dell'Europa metta un punto fermo sull'esigenza di cambiare la politica estera.
Una parte assai rilevante della politica estera europea ruota attorno alla questione dei rapporti con il Vicino Oriente e, questa settimana, ci siamo concentrati molto sulla Turchia, considerata la pesantissima situazione che sta attraversando al suo interno sul piano dei diritti. E la Turchia è uno stato candidato all'ingresso nell'Ue ...
La Turchia è un paese strategico per l'incontro tra Oriente e Occidente, sul piano della politica, della cultura, del dialogo interreligioso; oggi però è in mano, di fatto, a un dittatore, eletto sì, ma che governa con il pugno di ferro; è un rischio per l'area del Vicino Oriente, ma è un rischio anche per la democrazia europea, perché minaccia Stati membri come la Bulgaria, Cipro, la Greci; rappresenta una minaccia per la questione migratoria; la Turchia non riconosce i diritti e le libertà del popolo curdo, non rispetta libertà delle donne né le minoranze religiose; ha un piede pericolosamente posto in Siria, rendendo ancora più sofferente un paese già di per sé instabile. Per tutte queste ragioni, oggi la Turchia non può entrare nell'Ue. Però, sono convinto che dobbiamo sperare che la Turchia in futuro torni in cammino verso l'Europa, verso il dialogo e la democrazia, perché ne abbiamo bisogno, così come sono convinto che sia giusto aver interrotto i negoziati di adesione perché oggi chi governa la Turchia, di fatto non rispetta i valori europei.
Qual è il perimetro entro il quale operare per garantire la sicurezza dei cittadini? È un quesito complesso che si presta, da sempre, a un dibattito acceso. Negli ultimi decenni, in numerosi casi, ci si è trovati ad attuare misure di sicurezza che, a fronte di rischi quale quello di attentati terroristici, se da un lato hanno ampliato i margini di intervento degli Stati per tutelare i cittadini, dall'altro rischiano di compromettere le libertà, anche quelle fondamentali. Sono i periodi di crisi quelli in cui si avverte maggiormente tale rischio e non è semplice il compito di intervenire in maniera mirata e capillare, attuando prevenzione e repressione, quando necessario. Volendoci ricollegare per un attimo al tema predominante della settimana, quello cioè relativo alla situazione turca e al contrasto attuato verso gli esponenti del Partito/Fronte di Liberazione Popolare Rivoluzionario, ritenuto un'organizzazione terroristica, è chiaro che in casi del genere i metodi attuati per tutelare la sicurezza vadano a discapito della democrazia e della libertà. Qual è inoltre una definizione univoca di “terrorismo”? È difficile fare una sintesi poiché le sue manifestazioni sono purtroppo multiformi.
Quello che però si può affermare, in linea generale, è che non si possa far ricorso in ogni momento a qualunque mezzo per la tutela della sicurezza, perché farlo contrasterebbe con il principio di proporzionalità e si porrebbe in contrasto con i principi affermati dalla Carta dei diritti fondamentali. Ce lo ricorda l’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione europea Campos Sánchez-Bordona, che, nelle conclusioni di alcune cause riguardanti il trattamento dei dati personali da parte di alcuni fornitori di servizi di comunicazione elettronica, ha sostenuto che “le limitazioni dell’obbligo di garantire la riservatezza delle comunicazioni e dei dati relativi al traffico ad esse correlati devono essere interpretate in maniera restrittiva e alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta”. Parimenti, afferma ancora l'avvocato generale, “nulla osta a che, in situazioni eccezionali, caratterizzate da una minaccia imminente o da un rischio straordinario tali da giustificare la dichiarazione ufficiale dello stato di emergenza, la legislazione nazionale preveda, per un periodo di tempo limitato e con le adeguate garanzie giurisdizionali, la possibilità di imporre un obbligo di conservazione di dati tanto ampio e generale quanto si ritenga necessario”.
La conservazione del dato dev'essere limitata e differenziata: bisogna cioè che siano conservati i dati “assolutamente indispensabili per la prevenzione e il controllo efficaci della criminalità e per la salvaguardia della sicurezza nazionale per un periodo determinato e differenziando in funzione di ciascuna categoria”, inoltre l'accesso agli stesso va limitato, cioè “soggetto a un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’entità amministrativa indipendente, all’informazione delle persone interessate – purché ciò non comprometta le indagini in corso –, e all’adozione di norme che evitino l’uso indebito e l’accesso illecito ai dati”.
Per conoscere più approfonditamente l'argomento, leggendo le conclusioni dell'avvocato Campos Sánchez-Bordona, clicca qui.