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Questa settimana, considerati i temi maggiormente in discussione in sede europea per gli accordi finanziari sul QFP e sul Recovery Plan, Vi presentiamo una interessante conversazione con il Prof. Giuseppe Pennisi, che vanta al suo attivo una carriera sia come dirigente generale ai ministeri del Bilancio e del Lavoro che come docente di economia al Bologna Center della Johns Hopkins University e della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione di cui ha coordinato il programma economico dal 1995 al 2008. Attualmente, Pennisi collabora con “Formiche” e  “Avvenire”. È consigliere del Cnel in quanto esperto nominato dal Presidente della Repubblica ed insegna alla Università Europea di Roma. Ha pubblicato una ventina di libri di economia e finanza in Italia, Usa, Gran Bretagna e Germania; Vi invitiamo a tener presente i suoi scritti, per approfondire i temi di questa intervista. Come già altre volte è capitato, quindi, con questo dialogo trattiamo temi di interesse economico, invitandoVi al contempo ad approfondirli leggendo alcuni testi.

Con questa intervista apriamo la rivista a interventi di personalità che non fanno parte del Movimento ma che hanno accettato di dare il loro contributo a titolo personale nel nostro Consiglio accademico. Come sanno le nostre lettrici e i nostri lettori, il Movimento europeo si è espresso più volte sul tema delle risorse proprie, sottolineando l’urgenza di una capacità fiscale autonoma dell’Unione europea attraverso vere imposte europee. Le proposte avanzate dal Movimento europeo hanno incontrato un consenso crescente facendo sperare che gli ostacoli indicati dal Professor Pennisi possano essere superati. Torneremo nelle prossime newsletter su questo argomento con altre interviste per presentare punti di vista diversi..

Parlando di politiche economiche per l'eurozona, molto si sta discutendo sul Recovery Plan. Si è detto che ci vorrà ancora tempo per definire l'accordo in tutti i suoi aspetti. Cosa prevede? La strada è in salita o in discesa?

A mio avviso la strada è molto lunga e tutta in salita. Non è affatto prevedibile che lo scadenzario che si era formulato dopo il Consiglio europeo di luglio venga osservato. Questo perché il Next generation Eu e il Recovery Plan, per poter essere finanziati, prevedono che la Commissione europea emetta delle imposte di scopo, sulla plastica, sul web, sulle transazioni finanziarie. Sono ragioni apparentemente tecniche, ma in realtà politiche.

Come si possono raggiungere questi obiettivi?

È necessario un trasferimento importante della capacità impositiva degli Stati alla Commissione; si richiede pertanto un nuovo trattato e le ratifiche dei Parlamenti. Per la plastica non vedo difficoltà, ma ne vedo di serie per le altre. Anzitutto, gli Stati membri non vorranno dare questa capacità impositiva all’Ue perché la sottraggono a se stessi. Per quanto riguarda la border carbon tax, è contraria allo spirito dell’OMC, perché sarebbe non reciproca e discriminatoria. Sull’imposta sul web, è aperta una discussione in sede OCSE da circa quindici anni. Quando la Francia ha voluto muoversi unilateralmente, gli USA hanno risposto imponendo dei dazi al 25% sui vini e la moda francese, costringendola a fare marcia indietro. Per quanto riguarda la tassa sulle transazioni finanziare, la cosiddetta Tobin tax, lo stesso Tobin l’ha ripudiata e la strada per arrivarci è molto lunga. Non credo che in un momento di abbassamento del PIL e conseguente aumento della tassazione molti Stati membri siano pronti a trasferire la propria capacità impositiva alla Commissione. Se non si supera questo ostacolo, la Commissione può emettere obbligazioni sul mercato, ma queste vanno poi rimborsate nel bilancio settennale, che viene ripagato dalla Commissione sotto forma di nuove imposte comunitarie. Gli Stati in questo momento, a mio avviso, non rinuncerebbero facilmente alla propria capacità impositiva per mettere in atto questo meccanismo.

Vede ulteriori insidie?

Un’altra trappola è rappresentata dal fatto che il Parlamento europeo ha chiesto che vengano esclusi dal Recovery Plan i Paesi europei che non rispettano lo stato di diritto, cioè Ungheria e Polonia; ciò ha portato questi ultimi ad allearsi con i Paesi cosiddetti frugali, quelli per intenderci che ritengono inappropriato che i propri contributi vadano a paesi “spendaccioni” come l’Italia.

Quante probabilità di riuscita ha la mediazione in corso?

La cancelliera Merkel, alla guida del semestre di presidenza tedesco, sta tentando una mediazione, ma spesso ciò porta a negoziati lunghi e difficili; inoltre è sul viale del tramonto anche lei, quindi l’accordo è molto difficile. È comprensibile che il Presidente Conte tenti di dare rassicurazioni sul fatto che non ci saranno ritardi, ma lo fa per tenere alto il morale delle truppe, perché la strada resta in salita. Per l’Italia ciò è particolarmente grave, perché la manovra finanziaria che si sta varando per il 2023 prevede che metà della stessa si basi sul Resilience Recovery Fund. Cosa si fa in sua assenza? Si dovrebbe, almeno per il comparto sanitario, far ricorso al MES, ma ciò crea attriti molto forti all’interno del governo.

Accordi a rischio, quindi?

Penso che un punto di accordo non si raggiungerà entro la fine dell’anno; forse ci si arriverà in giugno – luglio dell’anno prossimo e probabilmente l’ammontare delle risorse a disposizione sarà notevolmente inferiore rispetto alle cifre di cui si parla in questi giorni.

Parliamo comunque delle scelte in discussione: si è detto che l'ambiente sarà il settore al quale andranno destinate più risorse nel prossimo bilancio. Qual è la situazione al momento?

Per ora, le politiche ambientali sono responsabilità dei singoli Stati dell’Ue. Quindi in questo caso si tratta di far diventare le politiche ambientali materia comunitaria. È possibilissimo, ma è mia opinione che sia più urgente far diventare le politiche sanitarie materia comunitaria. Attualmente, infatti, ci troviamo di fronte ad un aumento spaventoso della pandemia in Francia, Spagna, Italia, e tutti seguono regole differenti.

Ad ogni modo, l’ambiente rimane una priorità, anche per le ricadute positive in termini di sostenibilità e per perseguire una strada diversa dai grandi inquinatori.

Rispetto al prossimo quadro finanziario, in tale settore molto dipenderà dalle proposte degli Stati e dal ruolo di vigilianza svolto dalla Commissione. La sostenibilità ambientale è un ambito in cui il compito della Commissione è quello di verificare il raggiungimento degli obiettivi da parte degli Stati. Certo, i grandi inquinatori oggi sono i Paesi asiatici e africani, l’Europa ha invece dei sistemi di controllo che la portano ad aver imboccato, non da oggi, una strada diversa. Sulla ricaduta economica delle politiche ambientali, tutto dipende dalle scelte attuate. Per esempio, quarant’anni fa, quando ero al Ministero del Bilancio, oltre metà degli investimenti che finanziava il fondo Investimenti – occupazione erano destinati alla difesa del suolo, al ripristino degli acquedotti, tutti con grandi ricadute positive ambientali. Inoltre, tutti gli investimenti pubblici in Italia passano dal Ministero dell’Ambiente per una valutazione di impatto ambientale. Insomma, non è una novità il fatto che l’ambiente sia uno dei settori prioritari degli investimenti pubblici.

Quali pensa che siano le maggiori difficoltà che si dovranno superare per raggiungere un accordo sul QFP che sia ritenuto adeguato dal Parlamento europeo?

Il Parlamento europeo sostiene – correttamente, dal suo punto di vista – che l’accordo non deve favorire gli Stati che non applicano le regole e i valori europei dello stato di diritto, cioè la Polonia e l’Ungheria. Come le ho detto prima, questo è un punto di vista indubbiamente validissimo, ma che sta intrappolando il negoziato. Quindi, il Parlamento europeo fa il suo lavoro, ma al tempo stesso è in corso un tentativo di negoziato da parte della Cancelliera Merkel. Bisogna vedere come va a finire, perché le mediazioni sono sempre lunghe. Difficile che si chiuda quest’anno, perché qualsiasi Paese può tenere in ostaggio tutti.

Quali opportunità si aprono per il Mezzogiorno? Questa crisi può diventare un'opportunità per accorciare le distanze oppure teme che alla fine aumenterà il divario Nord-Sud?

È molto semplice: dipende dalle istituzioni meridionali e non dal flusso di finanziamento. Se non si mettono in testa di rinnovarsi e di puntare all’efficienza, nessun finanziamento potrà contribuire allo sviluppo. Questo vale per tutte le istituzioni del Mezzogiorno: poco efficienti, in un contesto di criminalità dilagante. Non c’è un problema di finanziamenti, se non si superano questi ostacoli. Peraltro, le Regioni del Mezzogiorno raramente utilizzano i fondi strutturali a loro disposizione: non ne sono in grado. Perciò sul fatto se questo sia il momento buono per una svolta, non so risponderLe: dipende esclusivamente da loro.

 

 

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Nonostante la produzione normativa italiana sia assai complessa, tanto che secondo alcuni giuristi ci si trova di fronte ad una ipertrofia del diritto, vi sono alcuni aspetti che la giurisprudenza non ha regolamentato adeguatamente e sui quali è intervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione europea. Uno di essi è quello relativo all’indennizzo delle vittime di reati violenti e su di esso si è riscontrata una controversia tra Italia e Commissione europea risolta con un ricorso alla Corte: “La Repubblica italiana”, si legge nelle conclusioni dell’avvocato Yves Bot che lo ha ritenuto ammissibile in data 12 aprile 2016, “prevede, nel suo diritto nazionale, che un indennizzo siffatto sia possibile soltanto rispetto a determinati reati intenzionali violenti, come gli atti di terrorismo o i reati legati alla mafia”.

Ma veniamo ai fatti. Dopo una serie di scambi infruttuosi con la Repubblica italiana, “La Commissione ha inviato a quest’ultima, il 25 novembre 2011, una lettera di diffida nella quale contestava a tale Stato membro di non prevedere nella sua normativa un sistema generale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti, contrariamente alle prescrizioni che derivano, secondo tale istituzione, dall’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80, e la invitava a presentare le proprie osservazioni su tale punto.  Nella sua risposta del 14 maggio 2012, la Repubblica italiana ha presentato un progetto di interventi legislativi volti a creare un sistema generale di indennizzo. Non essendo stato presentato alcun calendario legislativo per l’attuazione di detto progetto, la Commissione ha dato seguito al procedimento precontenzioso. Con lettera del 12 luglio 2013, la Repubblica italiana ha informato la Commissione del fatto che il Tribunale ordinario di Firenze (Italia) aveva sottoposto alla Corte una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione dell’articolo 12 della direttiva 2004/80, e ha proposto di attendere la decisione della Corte nell’ambito di detta causa prima di dar seguito al procedimento da essa avviato. Il 18 ottobre 2013 la Commissione ha tuttavia notificato alla Repubblica italiana un parere motivato, con cui ha invitato le autorità italiane ad adottare le misure necessarie per conformarsi all’articolo 12 della direttiva 2004/80 entro due mesi da detta data. Nella sua risposta pervenuta alla Commissione il 18 dicembre 2013, la Repubblica italiana ha ribadito di ritenere opportuno attendere la risposta della Corte alla questione pregiudiziale posta dal Tribunale ordinario di Firenze. Con ordinanza del 30 gennaio 2014, C. (C‑122/13, EU:C:2014:59), la Corte si è tuttavia dichiarata manifestamente incompetente a rispondere a tale questione.  Alla luce di ciò, la Commissione ha deciso di adire la Corte con il presente ricorso per inadempimento in forza dell’articolo 258, secondo comma, TFUE.  Con decisione del presidente della Corte del 22 maggio 2015, il Consiglio dell’Unione europea è stato autorizzato ad intervenire nel presente procedimento a sostegno delle conclusioni della Commissione”.

In particolare, al centro della controversia è l’interpretazione dell’articolo 12 della direttiva 2004/80. Secondo la Commissione, “l’articolo 12, paragrafo 2, di tale direttiva, pur non definendo la nozione di «reati intenzionali violenti», non lasci tuttavia alcun margine di discrezionalità agli Stati membri quanto all’ambito di copertura del sistema nazionale di indennizzo, il quale non può che corrispondere all’intera categoria dei reati intenzionali violenti, quale individuata dal diritto penale materiale di ciascuno Stato membro. Di conseguenza, gli Stati membri non avrebbero il diritto di sottrarre taluni reati di tale categoria all’ambito di applicazione della normativa nazionale destinata a trasporre la direttiva 2004/80. […] Secondo la Commissione, la Repubblica italiana si sarebbe limitata a trasporre le disposizioni del capo I della direttiva 2004/80, che riguardano l’accesso all’indennizzo nelle situazioni transfrontaliere. Invece, per quanto riguarda il capo II di tale direttiva, tale Stato membro avrebbe previsto, mediante diverse leggi speciali, un sistema di indennizzo soltanto per le vittime di alcuni reati specifici, come le azioni di terrorismo o la criminalità organizzata, mentre nessun sistema di indennizzo sarebbe stato istituito per quanto riguarda i reati intenzionali violenti che non sono coperti da tali leggi speciali, in particolare lo stupro o altre gravi aggressioni di natura sessuale”.

Di segno opposto la posizione dell’Italia, secondo cui il ricorso presentato dalla Commissione non sarebbe stato “in linea con le contestazioni contenute nel parere motivato del 18 ottobre 2013 (v. sopra, ndr). Infatti, detto parere motivato riguarderebbe unicamente i «reati di omicidio e lesioni personali gravi che non rientrano nei casi previsti dalle “leggi speciali”», nonché lo «stupro e altre gravi aggressioni di natura sessuale». Ebbene, nel presente ricorso, la Commissione contesterebbe alla Repubblica italiana di non aver introdotto un sistema generale di indennizzo per le vittime di tutti i reati intenzionali violenti commessi nel proprio territorio, ampliando in tal modo l’oggetto del ricorso per inadempimento. Quest’ultimo sarebbe, pertanto, irricevibile. In via subordinata, la Repubblica italiana rammenta che la direttiva 2004/80 è stata adottata sulla base dell’articolo 308 CE. Ebbene, l’Unione non sarebbe competente a legiferare, in materia di repressione dei reati di violenza comune di ciascuno Stato membro, né sotto il profilo processuale né sotto quello sostanziale, e non sarebbe neppure competente a disciplinare le conseguenze di tali azioni sul piano civile. Tenuto conto della base giuridica di detta direttiva, quest’ultima si limiterebbe ad imporre agli Stati membri di consentire ai cittadini dell’Unione residenti in un altro Stato membro di avere accesso ai sistemi di indennizzo già previsti dalle rispettive norme nazionali in favore dei loro cittadini vittime di reati intenzionali violenti. Ebbene, la Repubblica italiana avrebbe adempiuto a tale obbligo mediante le disposizioni procedurali del decreto legislativo n. 204/2007 e del decreto ministeriale del 23 dicembre 2008, n. 222. In via ulteriormente subordinata, la Repubblica italiana sostiene che gli Stati membri mantengono un ampio potere discrezionale nell’individuazione delle singole ipotesi di «reati intenzionali violenti» rispetto ai quali prevedere forme di indennizzo”.

La Corte, valutati gli elementi delle due parti, ha ritenuto anzitutto ricevibile il ricorso e, a proposito della posizione dell’Italia, ha chiarito che “uno Stato membro non può utilmente eccepire l’illegittimità di una direttiva di cui sia destinatario come argomento difensivo contro un ricorso per inadempimento basato sulla mancata esecuzione di tale direttiva”. Ha quindi riconosciuto che “non tutti i reati intenzionali violenti, quali precisati dal diritto italiano, sono coperti dal sistema di indennizzo vigente in Italia”, la quale “è venuta meno all’obbligo ad essa incombente in forza dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato”. L’Italia è stata quindi condannata a sopportare le spese di giudizio proprie e della Commissione europea. Per conoscere meglio i fatti, clicca qui.

 

 

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Ci siamo già occupati di giustizia europea in numerose occasioni e la nostra rubrica dedicata alle sentenze della Corte di Lussemburgo ha proprio la funzione di divulgare la conoscenza e stimolare il dibattito sulle attività del più alto organo giudiziario europeo, assieme alla Cedu. Questa settimana ci concentriamo sul capo VI della Carta, dedicato per l’appunto alla giustizia, ricordando che sull’argomento abbiamo già trattato l’articolo 49 nella newsletter n. 23, pubblicata il 13 luglio scorso. Adesso parliamo dell’articolo 47, che afferma un diritto fondamentale per l’affermazione della giustizia, quello cioè a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale; al suo interno, si delinea in che modo e con quali garanzie sia previsto l’accesso alla giustizia per il cittadino: “Ogni individuo”, recita il primo comma,”i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo”. In che modo quindi si svolge tale ricorso? “Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”.

Anche i meccanismi interni ai singoli Stati membri, a prescindere dall’esistenza della Carta, prevedono una serie di istituti che consentono al cittadino di far valere i propri diritti e far esaminare una controversia che lo riguarda in maniera imparziale. Sembrerebbe anzi inevitabile che sia così. Eppure, nell’Unione europea di oggi, rispetto a tale assunto si sottolineano perlomeno due aree di criticità. La prima è quella riguardante il rispetto dello stato di diritto, un tema scottante per gli Stati membri dell’Europa centrale e che può avere ripercussioni anche su altri aspetti, quali gli accordi per il Recovery fund. Da questo punto di vista, sono già più d’uno i casi trattati nelle precedenti newsletter che hanno riguardato controversie aperte in sede di Corte di Giustizia Ue e che vedono coinvolti Stati membri come l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca: un capitolo, quello del rispetto dello stato di diritto, che nella situazione attuale desta non poche preoccupazioni. La seconda area di criticità riguarda la cooperazione giudiziaria nello Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. A tal proposito, vogliamo ricordare l’evento organizzato il 30 settembre scorso dall’europarlamentare Sven Giegold, dal titolo "Zero tolleranza verso il dumping fiscale e il riciclaggio di denaro" (è il secondo sul tema) che ha visto tra l’altro la partecipazione dei Ministri delle Finanze italiano e tedesco. A seguito di una domanda del giornalista Massimiliano Nespola, responsabile di questa newsletter, si è aperta una riflessione su un obiettivo che l’Unione europea dovrà perseguire. Infatti, al Ministro Olaf Scholz è stato chiesto se si trovi d’accordo sul fatto che le differenti tradizioni giuridiche degli Stati membri siano un terreno in cui occorra collaborare di più e meglio; per esempio, bisogna ricordare che l’Italia è il solo paese a prevedere nel suo ordinamento il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Il Ministro Scholz si è detto d’accordo, affermando che “un ulteriore progresso sia necessario, se vogliamo avere la fiducia dei cittadini”. Volendoci ricollegare al tema dello stato di diritto, tale evento è stata l’occasione per rammentare che, anche su questo punto, occorre un progresso rispetto alla situazione attuale. 

 

 

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