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Questa settimana poniamo alla vostra attenzione il testo di un giovane studioso, Erasmo Mancini. Neolaureato in Giurisprudenza presso la Pontificia Università Lateranense con una tesi dedicata al contesto normativo in cui opera Frontex. Mancini sta svolgendo il servizio volontario europeo – occupandosi di perfezionare e innovare i meccanismi di comunicazione sui social – presso la sede del Movimento europeo. Con il suo studio, Mancini ha ragionato anche sui possibili meccanismi di riforma di Frontex e dell'approccio stesso dell'Unione europea al fenomeno migratorio, viste e considerate le notevoli criticità evidenziatesi in questi ultimi anni. Motu proprio, ha voluto dedicare questo suo scritto alla Giornata della Memoria 2021, raccontando la sua esperienza di adolescente in viaggio di istruzione presso l'ex campo di concentramento di Auschwitz e Birkenau.
Lo stupore per il male altrui
Sono passati ormai oltre dieci anni dalla mia esperienza di viaggio nel complesso di campi di concentramento di Auschwitz, a pochi chilometri dalla bellissima città polacca di Cracovia. Ero poco più di un bambino, avevo appena compiuto tredici anni; era il gennaio del 2010 ed insieme ai miei compagni di classe ho preso parte ad un viaggio formativo di oltre una settimana incentrato sulla sensibilizzazione al tema dell’olocausto degli studenti delle scuole medie della provincia di Latina.
Partimmo in autobus, da Gaeta a Cracovia, oltre 1700 chilometri coperti in circa 23 ore di viaggio. Difficile dire se sin dall’inizio qualcuno di noi avesse realmente preso coscienza di quello che avremmo incontrato nel corso del nostro viaggio. Qualcuno di noi era meno bambino di altri, nascevano le prime relazioni, le prime esperienze, ricordo bene che per i primi giorni del viaggio metà dei miei pensieri erano dominati dalla ragazza per cui, al tempo, avevo una piccola cotta, un pensiero che tuttavia non tornò a casa con me quella settimana, non c’era più spazio nella mia mente al ritorno.
Ricordo come l’idea di dormire in autobus non fosse un problema per nessuno di noi. Era un lussuoso e comodo autobus a due piani pieno di televisori in alta definizione, dove per tutto il corso della lunga traversata venivano proiettati film sull’Olocausto. Tuttavia, nonostante possa apparire paradossale, quei film non costituivano un peso per noi ragazzi, erano la principale fonte di distrazione dalla monotonia del tragitto. Nulla poteva scalfire i nostri animi infantili, nulla che riguardasse l’olocausto almeno.
Arrivati a Cracovia, trovammo la neve, una chimera per ragazzini di una cittadina di provincia del centro sud Italia, questa divenne il principale argomento di conversazione per i primi giorni di visita alla città. Anche durante la visita al ghetto ebraico di Cracovia, di fatto, la neve affollava i nostri pensieri, non si faceva altro che valutare il livello di sporcizia presente in un cumulo e una volta ritenuto lo stesso accettabile, cominciare a lanciare la neve meno scura sui pesanti e goffi giubbotti dei nostri compagni.
Anche i professori apparivano molto rilassati, i benefici derivanti dal notevole potere di acquisto che ai tempi noi italiani possedevamo in Polonia ed il lusso dell’hotel li aveva resi molto calmi e pacati, ci lasciavano molta libertà, tanto da rendersi irriconoscibili ai nostri occhi.
Questo clima ci accompagnò fino alla mattina del 26 gennaio.
Il 26 Gennaio fu il giorno in cui io, i miei compagni ed i miei professori, mettemmo per la prima volta piede nel campo di sterminio nazista di Birkenau.
Eravamo tutti molto incuriositi da quel luogo, di fatto quando entri dal grande portone principale ed osservi i lunghi binari che portano al centro del campo il primo pensiero che ti viene in mente è di trovarti in una struttura militare, direi anche non troppo antica, vista l’estrema modernità della struttura stessa rispetto anche alle abitazioni che circondano i campi.
Ma questa concezione di Auschwitz come “semplice” campo militare, come museo, variava molto rapidamente con il passare delle ore.
Ricordo che, avanzando nella neve alta, le nostre guide ci mostrarono prima di tutto le latrine comuni, poi i dormitori comuni ed ancora il resto dei campi. Passammo da Birkenau I e II ad Auschwitz I, gli edifici in mattoni erano quasi gradevoli alla vista, di fatto non sembravano un mattatoio di anime. Alcune strutture sembravano simili a scuole, altre addirittura simili a case a schiera. Nonostante la vista dall’esterno delle strutture non fosse poi cosi sorprendente, ricordo il silenzio di quei momenti, nessuno voleva parlare, nonostante fosse pieno di neve bianca e pulita da lanciarsi addosso.
Come ho detto, le cose possono cambiare molto rapidamente durante una visita nel complesso di campi di Auschwitz: nel corso del pomeriggio e del giorno successivo ci mostrarono gli interni di quelle strutture cosi anonime.
Porta dopo porta, si aprivano mondi paralleli fatti di profondo degrado e solitudine. Ricordo molto bene i magazzini, oggi riempiti di oggetti personali dei detenuti dei campi, migliaia di scarpe, migliaia di parrucche e centinaia di protesi, qualcuna ancora annerita dai lembi di carne ormai putrefatti e rimossi solo successivamente dalle stesse. In particolare, le protesi ci colpirono molto: normalmente quando oggi si osserva una protesi separata dal corpo di un essere umano si pensa ad un manichino o ad una bambola, quelle protesi invece sembravano veri e propri arti umani separati da corpi viventi. Gli aloni e gli schizzi di sangue presenti su quelle forme lignee raccontavano una storia di dolore, di umiliazioni e, nel riflesso del vetro che ci separava dalle stesse, ognuno di noi poteva quasi sentire il puzzo della morte, un odore acre che ancora oggi avvolge le strutture.
Quello stesso odore acre, simile alla muffa ma meno dolce, meno naturale, avvolgeva le stanze delle ultime camere a gas rimaste nei campi. I sovietici fecero saltare i forni crematori, di cui oggi restano solo poche rovine, ma non riuscirono in ogni caso a far bruciare quel puzzo dalle fondamenta delle stesse e dalle ultime strutture di sterminio rimaste in piedi.
Era gennaio, in Polonia in quelle settimane si andava diversi gradi sotto lo zero, noi ragazzi camminavamo goffi sui sentieri in silenzio, ma non credo fosse il freddo a farci desistere dal parlare.
C’è un momento della visita che sono riuscito a comprendere a fondo solo molti anni dopo, e che tutt’oggi mi fa commuovere. La sera del 26 gennaio ci recammo tutti insieme al muro del pianto al tramonto, le nostre guide ci invitarono ad affrontare un momento di preghiera dinnanzi a quel simbolo sacro al popolo ebraico, rappresentazione della sofferenza di tutti gli individui passati per quel campo, non ebrei inclusi. Come molti italiani che visitano il campo fanno, ormai per consuetudine, cominciammo a cantare il brano “Auschwitz” di Guccini, non conoscevamo le parole ma le imparammo quasi subito dopo le prime strofe e soprattutto, piangemmo. Tutt’oggi non ho mai più visto molte di quelle persone piangere, ma quella sera di gennaio piangemmo tutti e piangemmo tanto, tantissimo, tanto da tornare in albergo con occhiali e sciarpe ancora bagnati dalle lacrime. Il giorno dopo, il 27 gennaio, terminata la visita mattutina alle fabbriche ci recammo a Birkenau per assistere al discorso dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, discorso a cui non assistemmo mai, poiché l’enorme tenda allestita per l’evento era ormai satura di autorità e studenti provenienti da tutto il mondo. In ogni caso, non me ne rammarico, sono abbastanza convinto che di quel discorso, oggi, non avrei ricordato neanche una parola.
Nella mia memoria sono piuttosto impressi i volti nelle foto scattate dagli scienziati nazisti ed esposte nei laboratori di Auschwitz I, ci sono i soffioni circolari delle camere a gas, c’è il significato della parola polacca Birkenau, betulla, dalla foresta di betulle che i nazisti abbatterono per costruire il campo, c’è il freddo pungente e soprattutto, c’è lo stupore del male altrui che li è stato commesso in modo consapevole e sereno.
Nonostante oggi esistano innumerevoli strumenti di sensibilizzazione al tema della Shoah e dello sterminio del diverso in ogni sua forma umana penso al cinema – penso alle testimonianze dei sopravvissuti, penso all’educazione civica stessa – sono convinto che nulla sia più efficace di una visita al complesso dei campi di concentramento di Auschwitz per instaurare in un individuo una sana e corretta memoria.
Parlo ancora con molte delle persone che parteciparono a quel viaggio; capita spesso, anche quando ci si incontra dopo molto tempo, di ricordare quei momenti e soprattutto capita spesso di raccontarli a persone che quei momenti non li hanno vissuti, invitandoli a recarsi li.
La memoria è un fenomeno umano collettivo, è necessario che si alimenti a vicenda, che la si coltivi come un orto comune da cui trarre frutti. Citando le parole della senatrice a vita Liliana Segre nel suo discorso al Parlamento europeo, “Il razzismo strutturale c’è sempre stato, non c’era il momento politico per tirare fuori il razzismo e l’antisemitismo che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito” e questi momenti possono tornare, vi saranno sempre individui che tenteranno di trovare il terreno adatto per farsi avanti e alimentare di nuovo la non memoria, il sentimento negativo verso il proprio vicino, il proprio fratello.
A mio parere dovremmo tutti passare attraverso Auschwitz, sono convinto che se vogliamo davvero fermare qualsiasi forma di deriva, di negazionismo o anche semplicemente di “ignoranza” sui fatti storici, questo sia l’unico modo per farlo.
Il mio auspicio è che, in futuro, non solo classi di meritevoli di qualche istituto scolastico sparso per l’Europa, ma tutti i cittadini europei, giovani e non giovani, passino almeno una volta per Auschwitz, e ritrovino la memoria.
Il settore delle tecnologie digitali presenta numerosi aspetti di interesse in merito alle possibili ricadute in termini di controversie relative all'applicazione del diritto europeo. Questa settimana, vi proponiamo due sentenze che hanno riguardato casi specifici relativi a direttive in cui si regolamentano le procedure che operatori commerciali, professionisti, aziende sono tenuti a rispettare.
Il primo caso verte su una controversia tra un cittadino e un'azienda fornitrice di mobili presso il quale lo stesso aveva acquistato una cucina integrata in occasione di una fiera commerciale. Gli elementi della cucina sarebbero stati assemblati da un'altra impresa secondo uno schema di perforazione su reti di produzione digitali. Successivamente, sarebbero stati montati in loco dall'azienda fornitrice; il cliente avrebbe poi esercitato il diritto di recesso. Ecco quindi l'insorgere della controversia: l'azienda fornitrice ha avviato un’azione di risarcimento danni a causa dell’inadempimento del contratto da parte del cliente. La direttiva su cui la Corte ha fornito i suoi chiarimenti, con sentenza del 21 ottobre 2020, è la n.2011/83. In particolare, è stato necessario chiarire l'articolo 16 della stessa, intitolato «Eccezioni al diritto di recesso». Secondo la Corte, il diritto di recesso non può essere esercitato dal consumatore che ha concluso un contratto negoziato fuori dei locali commerciali relativo alla vendita di un bene che dovrà essere confezionato secondo le sue specifiche, indipendentemente dal fatto che il professionista abbia iniziato la produzione di detto bene. Il testo della sentenza è consultabile cliccando qui.
Un ulteriore caso interessante riguarda l'Italia in relazione al recepimento della direttiva 2011/7, dedicata alle transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni, ideata per contrastare il ritardo nei pagamenti delle seconde verso le prime. Recepita nell’ordinamento giuridico italiano con il decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192, la direttiva ha portato all'adozione di alcuni provvedimenti, quali lo stanziamento di risorse finanziarie aggiuntive per il pagamento dei crediti certi, liquidi ed esigibili delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni, come le leggi del 6 giugno 2013, n. 64 e quella del 23 giugno 2014, n. 89. Inoltre, è stato previsto un sistema di compensazione tra i propri debiti tributari e i crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni; a tal fine si è ritenuto opportuno favorire anche la digitalizzazione delle imprese e dei sistemi di pagamento per perseguire l'obiettivo di una maggiore efficienza in queste transazioni. Tuttavia, a seguito di una serie di denunce presentate da operatori economici e associazioni di operatori economici italiani, la Commissione ha inviato alla Repubblica italiana, il 19 giugno 2014, una lettera di messa in mora, contestandole l’inadempimento degli obblighi ad essa incombenti. Ne è seguita una corrispondenza tra le due parti, che non ha portato però a risultati significativi, ragion per cui la Commissione europea ha presentato ricorso presso la Corte di Giustizia dell'Ue il 14 febbraio 2018. Con sentenza del 28 gennaio 2020, sono state riconosciute dalla Corte le ragioni della Commissione: l'Italia si è resa inadempiente rispetto agli obblighi previsti nella suddetta direttiva ed è stata anche condannata al pagamento delle spese legali. Il testo della sentenza è consultabile cliccando qui.
L'articolo 48 della Carta dei diritti fondamentali è dedicato alla presunzione di innocenza e al diritto di difesa, riconosciuto a tutti coloro che sono imputati in un processo e la cui colpevolezza diventa tale solo quando riconosciuta con sentenza definitiva. A livello europeo, ciò ha portato ad identificare nel cosiddetto “terzo pilastro” dell'integrazione lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. È necessario perciò che le magistrature e i sistemi di sicurezza degli Stati membri dialoghino anche in una dimensione europea. Oggi, si avvertono alcune carenze nell'integrazione, specialmente quando si tratta il tema delle tradizioni giuridiche preesistenti.
Per approfondire il tema, Massimiliano Nespola ha contattato l'europarlamentare italiana Laura Ferrara (Gruppo dei non iscritti, eletta nel collegio Italia meridionale), avvocato, esponente del Movimento 5 Stelle membro della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni. In occasione dell'ultima sessione plenaria del Parlamento europeo, svoltasi dal 18 al 21 gennaio, in un suo intervento, Laura Ferrara ha posto proprio l'accento sul tema, affermando che “il rafforzamento dello spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia nell'Unione europea non può prescindere dal miglioramento dell'attuazione del mandato d'arresto europeo”. È un tema di interesse sia giuridico che tecnologico, perché legato anche alle strategie per scambiarsi più agevolmente informazioni attraverso sistemi digitali di comunicazione che superino più agevolmente le difficoltà esistenti in tale ambito.
La digitalizzazione è più utilizzabile come metodo per svolgere i processi o come metodo di indagine?
In tale ambito, ho avuto colloqui sia con Europol che con Eurojust e questo metodo interessa entrambe le attività nell'ambito della cooperazione giudiziaria. Si parla infatti, già dalla scorsa legislatura, di utilizzare in tale settore sia l'intelligenza artificiale e che la digitalizzazione, per quanto siano due attività differenti. In entrambi i casi si tratta di affidare a sistemi informatici tutto ciò che oggi è svolto da funzionari, che devono trascrivere e tradurre determinate informazioni, inserire parole chiave, impiegando molto più tempo e andando a scapito dell'efficienza delle indagini. Ciò vale sia a livello nazionale che a livello europeo, per lo scambio di informazioni. Se i dati che hanno carattere di transnazionalità vengono inseriti su delle banche dati e si riesce a incrociarli in maniera più veloce, efficiente, automatizzata, si guadagna molto tempo.
La rapidità e la tempestività è fondamentale. Vi si deve accostare anche la fiducia reciproca tra Stati membri: se essa manca, diventa più complesso collaborare.
Qual è il livello di collaborazione, oggi, tra gli Stati membri?
Credo che si stiano facendo dei passi in avanti, sia per quanto riguarda lo scambio di informazioni che per quanto riguarda il voto per il regolamento relativo all'interoperabilità tra i sistemi di informazione dell'UE. In passato veniva contestato il fatto che le varie banche dati non fossero in comunicazione tra loro: informazioni importanti ai fini di un'indagine rischiavano di rimanere sconosciute. Inoltre, per quanto siamo ancora agli inizi, dal 1° marzo dovrebbe entrare in funzione anche l'Ufficio del pubblico ministero dell'Ue (EPPO).
Un tema controverso e delicato, quello di EPPO. Se n'è parlato poco e, quando se ne è parlato, in Italia, si sono sollevati alcuni dubbi e probabilmente si è fatta confusione sia sul suo ambito di competenza che sulle sue funzioni ...
Anzitutto, va chiarito il fatto che con Eppo non si impone un sistema giudiziario europeo che sostituisca quelli nazionali. Anzitutto, la competenza di Eppo è limitata al perseguimento delle frodi finanziarie al bilancio dell'Unione: non si occupa quindi di tutti i procedimenti penali. Quando sarà operativo pienamente, si sarà raggiunto il giusto livello di fiducia tra Stati membri: laddove essi sostengano di voler fare riferimento alle proprie tradizioni giuridiche, bisogna chiarire che il punto non è quello di modificare i propri sistemi, ma semplicemente di creare una cooperazione a livello europeo. Del resto, ogni stato ha il proprio procuratore nell'ambito di Eppo. Ritengo che, una volta rodati i meccanismi, le competenze di Eppo possano anche essere ampliate; per esempio, si è parlato di ampliarle in relazione al terrorismo. Quando, nel corso della scorsa legislatura, presentammo (come gruppo dei Non Iscritti, ndr) emendamenti in merito al mandato di Eppo, anche i liberali si trovarono d'accordo su questo punto. Ci si trovò d'accordo sul fatto di ampliare tale mandato anche al perseguimento dei reati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Propedeutico a tale passo, dev'essere il riconoscimento del reato stesso a livello europeo.
Continueremo a parlare del tema, abbastanza complesso, ma volevo aprire una parentesi: anche il Recovery plan rientra in questo progetto di miglioramento, con i programmi per la digitalizzazione?
Sì, sicuramente rientra anche nel nostro programma nazionale, perché la digitalizzazione e l'informatizzazione rientrano tra le riforme, anche a livello italiano, come annunciato dal Presidente Conte, per una maggiore efficienza e speditezza del nostro sistema giudiziario.
Poiché rappresenti anche una regione attualmente ancora più in crisi in epoca di pandemia, come la Calabria, volevo chiederti: c'è il rischio di un acuirsi della distanza da Bruxelles? C'è un “caso Calabria” per quanto riguarda la criminalità organizzata?
In diversi settori, come la sanità, l'infiltrazione della corruzione e della criminalità organizzata è nota da tempo e ho avuto modo anche di denunciarla. Non credo sia un fenomeno solo calabrese. Ho riflettuto anche su come poter coinvolgere l'Unione europea rispetto a quanto stesse avvenendo in Calabria. Anche se non ha una competenza diretta nel settore sanitario, è però vero che i trattati prevedono che l'Unione eserciti comunque un suo ruolo, facendo valere il rispetto dei diritti fondamentali, tra cui rientra quello alla salute.
Tornando al tema del contrasto europeo alla criminalità organizzata, il punto centrale è questo: seguire i flussi finanziari e la circolazione dei capitali nelle varie modalità illecite in cui possono circolare, come false fatturazioni, riciclaggio, operazioni sospette su conti correnti esteri.
In questo ambito, ancora c'è molto da lavorare, anche se degli input dal Parlamento europeo sono arrivati, già nella legislatura 2009 – 2014, con l'istituzione della Commissione CRIM. Un ulteriore segnale si è avuto nella legislatura 2014 – 2019 con la mia relazione sul contrasto alla corruzione e alla criminalità organizzata, in cui il Parlamento europeo chiedeva il riconoscimento a livello europeo del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, ricalcando nella definizione quanto previsto dall'articolo 416 bis del Codice penale italiano. In questa legislatura, ancora una volta il Parlamento europeo, in una relazione a firma della collega Sabrina Pignedoli (Movimento 5 Stelle) ha riconosciuto la necessità di tale riconoscimento. Quindi gli input arrivano da parte del Parlamento europeo, ma poi la Commissione europea deve saperli cogliere. Su questo singolo aspetto, ricordo il fatto che confrontandomi con il Commissario King, responsabile nella scorsa legislatura per la Sicurezza e affari interni, a fronte dell'approvazione della mia relazione di cui sopra, non riteneva questo tema una priorità: priorità erano il terrorismo, la corruzione e il riciclaggio, ma non il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
È un tema, ripeto, delicato e scottante: si tratta di toccare gli interessi economici della criminalità organizzata, non è un lavoro da poco.
Durante un'audizione in Commissione Libe, lo scorso anno, con la presenza di Cafiero de Raho e altri esperti accademici, ho sollevato una riflessione sul come si possa ancora oggi possa esservi l'assenza del riconoscimento di questo tipo di reati …. ciò è dovuto ad una mancanza di consapevolezza oppure si tratta di una lacuna scientemente voluta per tutelare determinati interessi economici? Pensare che il non riconoscimento del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso su tutto il territorio europeo sia dovuto ad una mancanza di consapevolezza risulta un po' ingenuo, senza per questo pensare ad una teoria del complotto. Gli input sono arrivati a più riprese – esisteva anche una sezione di Europol che si occupava proprio di questo – la consapevolezza c'è, ma forse ad alcuni Paesi, sta bene così perché la situazione attuale consente di alimentare determinate attività imprenditoriali.
È una materia in cui alcuni dettagli sfuggono e ciò lascia intendere che vi possano essere delle aree di incertezza, specialmente guardando all'area dei nuovi Stati membri dell'Est europeo.
Assolutamente sì. Ci sono ancora molti passi da compiere per armonizzare e rendere più snella e fluida la cooperazione tra Stati membri, per la presenza differenze sostanziali nelle culture giuridiche, per esempio in Polonia ed Ungheria, che vanno a toccare proprio lo stato di diritto. Ciò ostacola la messa in atto di riforme per contrastare in maniera più efficace la criminalità organizzata. Ricollegandomi al punto iniziale, è il motivo per cui pongo l'accento sulla necessità della fiducia reciproca per poter più agevolmente collaborare nel contrasto al fenomeno.
Meccanismo europeo di Stabilità: uno strumento in più in una situazione di crisi finanziaria
Lo scorso 27 gennaio i rappresentanti permanenti degli Stati dell’area euro hanno firmato la Riforma del MES dopo un lungo negoziato, che aveva visto sciogliere i principali nodi politici durante il Governo – Conte 1 con il Ministro Tria, raggiungere l’accordo nell’eurogruppo lo scorso 20 novembre e ottenere l’approvazione del Consiglio europeo del 10 dicembre scorso.
Il presidente dell’eurogruppo, l’irlandese Danohe, ha definito la Riforma del MES: “una pietra miliare nell’ulteriore sviluppo dell’Unione economica e monetaria che rafforzerà la capacità di prevenzione e risoluzione delle crisi dell’area euro”.
Cerchiamo di capire perché.
Il MES nacque nel 2012 a seguito della crisi del 2008, quando le grandi difficoltà finanziarie in cui si trovavano molti Stati fecero sorgere l’esigenza di istituire un meccanismo di salvataggio dell’area euro attraverso un apposito Trattato.
L’art.123 del Trattato vieta, infatti, agli Stati Membri e alla BCE di salvare gli Stati in difficoltà per scongiurare così il rischio di facili indebitamenti.
La soluzione fu trovata dapprima nella creazione di un Fondo temporaneo (EFSM) con cui erano stati salvati Grecia, Irlanda e Portogallo e quindi di uno permanente: il MES, al quale anche l’Italia (anni 2010-11), difronte al rischio di non poter sostenere il proprio debito pubblico, si era espressa in modo favorevole.
Il MES nasce come organismo intergovernativo della zona euro, costituito sulla base di uno specifico Trattato, con un capitale virtuale di 705 miliardi di euro versato dagli Stati che vi partecipano. Tra questi il maggiore contributore è la Germania con un versamento pari al 27% del capitale. L’Italia contribuisce per il 18%.
Compito principale del MES è quello di evitare il contagio ad altri Stati di crisi finanziarie legate ai debiti sovrani e al sistema bancario di uno Stato, attraverso la concessione allo stesso di prestiti a fronte di una rigida condizionalità da rispettare.
Il paese che ottiene un prestito sottoscrive un Memorandum of Understanding (MoU) che indica le misure che si impegna a realizzare, le quali consistono prevalentemente in riforme strutturali e tagli alla spesa. Il negoziato è seguito dalla Commissione europea con la BCE e/o il FMI (se coinvolto). Una volta ottenuto il prestito da rimborsare è compito dello Stato beneficiario adottare tutte le misure correttive necessarie volte a contrastare le debolezze che hanno favorito la propria crisi, mentre spetta alla Commissione un’azione di monitoraggio (sorveglianza rafforzata dello Stato membro) con il quale la stessa si farà garante della corretta attuazione degli impegni sottoscritti dallo Stato verso il MES. Se la Commissione, nel corso del suo monitoraggio, giunge alla conclusione che la situazione economica e finanziaria dello Stato membro può avere effetti negativi sulla stabilità finanziaria della zona euro, lo comunica al Consigliodi amministrazione del MES, che, deliberando a maggioranza qualificata, può raccomandare allo Stato membro interessato di adottare misure correttive precauzionali o di predisporre un progetto di programma di aggiustamento macroeconomico (early warning system). Questo avvertimento non comporta sanzioni.
Il MES è dunque un’entità a sé stante nell’ambito europeo, con una sua organizzazione, un suo consiglio d’amministrazione (costituito dai Ministri delle finanze degli Stati) e un suo statuto che detta le regole in base alle quali opera. Pertanto, richiedere un prestito al MES, non vuol dire chiederlo all’Europa, ma ad un organismo internazionale, che agisce “secondo le regole fissate dal suo statuto, salvo eventuali deroghe” (ad esempio gli Stati membri con i conti e parametri in ordine potranno rivolgersi al MES, senza l’istruttoria preliminare sulla propria situazione economica, come normalmente richiesto).
Con la Riforma appena adottata, pur cambiando solo pochi dei 48 articoli del precedente Trattato, sono stati introdotti importanti meccanismi di ulteriore tutela finanziaria.
Vediamo in sintesi quali.
Innanzitutto il c.d. backstop. Di regola, quando una banca è in una situazione critica per essere dismessa in modo ordinato (vale a dire mantenendo l’operatività verso i clienti, al fine di non creare danni agli stessi) può attingere a risorse provenienti dal Fondo unico di Risoluzione delle Banche. Le risorse del Fondo sono costituite da somme versate per questo scopo annualmente da grosse banche. Una sorta di assicurazione o meglio messa in comune dei rischi finanziari. Il Fondo è gestito da un Comitato unico di risoluzione (Single Resolution Board) che è un organismo incorporato all’interno della Commissione europea. Poiché il Fondo ad oggi non ha grandi risorse in quanto creato da poco, per fronteggiare le richieste di possibili ingenti risorse da parte delle banche è stato necessario prevedere un apposito meccanismo di backstop in grado di mettere a disposizione del sistema bancario ulteriori risorse provenienti dal MES, con lo scopo finale di tutelare quanto più possibile i risparmiatori. La sua entrata in funzione inizialmente prevista nel 2024 è stata anticipata al 2022, dal momento che la Commissione e la BCE hanno valutato positivamente le attuali condizioni generali del sistema bancario dell’area euro.
Altro punto importante sono le Clausole di azione collettiva sul debito (CACs). Si tratta di clausole già inserite dal 2013 in tutti i prospetti finanziari, che fissano le condizioni contrattuali dei BOND pluriennali. Con esse lo Stato emittente può modificare i termini contrattuali se conta su una maggioranza di creditori favorevoli. Lo Stato può ricorrere a tali clausole quando - trovandosi in difficoltà finanziarie - intende gestire il proprio default in modo più ordinato e senza discriminazioni fra creditori. Queste clausole saranno deliberate con la riforma "a maggioranza" con un voto unico di tutti i creditori e non più con voto separato per ogni tipologia di titolo di Stato detenuto, rendendo così più sicure le azioni di ristrutturazione del debito in corso, difronte a possibili interventi di grandi speculatori (c.d. hold-out), che comprando a valori molto bassi, potrebbero impedire col loro voto la ristrutturazione del debito, chiedendo anche il rimborso al 100% dei loro titoli. Fatto importante: per accedere a queste clausole, non è previsto un preventivo e automatico meccanismo di ristrutturazione del debito.
Altro punto importante della riforma sono le Linee di credito precauzionali:Precautionary Condition Credit line e Enhaced condition credit (il c.d. MES sanitario). Per evitare che piccole crisi diventino choc sistemici, sono state previste queste due linee di credito applicabili ad uno Stato in difficoltà che non ha ancora perso il ricorso al finanziamento di mercato. Le linee sono utilizzabili ad esempio per specifiche esigenze, come pagare le pensioni o fronteggiare l’emergenza sanitaria, con procedure e condizionalità più semplificate.
L’accesso a queste linee di credito è deciso sempre dal Consiglio di amministrazione del MES e prevede anche una valutazione complessiva del paese da parte della Commissione europea e dalla BCE.
Nella riforma, inoltre, non è previsto nessun bail-in del debito pubblico. La riforma prevede - difronte ad una richiesta di finanziamento avanzata da parte di uno Stato - semplicemente che il MES partecipi insieme allaCommissione all’analisi del debito, sentita la BCE, e firmi il Memorandum of Understanding, che quindi non sarà più sottoscritto dalla BCE. Se Commissione e MES si trovano in disaccordo sull’analisi di sostenibilità, l’ultima parola spetta comunque alla Commissione, che agisce come organo comunitario a differenza del MES che è una istituzione intergovernativa. La Commissione, quindi, è l’organo di ultima istanza. Con la riforma del MES, pertanto non è avvenuto alcun trasferimento dei compiti di sorveglianza di bilancio dalla Commissione (organo comunitario che decide a maggioranza) al consiglio del MES (organismo intergovernativo che decide con diritto di veto di ciascun stato membro nelle scelte più importanti.)
Il Fondo Monetario Internazionale, inoltre, che prima era uno degli attori e poteva partecipare al salvataggio del paese, dopo la riforma lo farà, ma con un suo programma di aiuti distinto da quello europeo.
Il MES è dunque un "prestatore di ultima istanza" con la missione di soccorrere paesi che non riescono più a finanziarsi sul mercato emettendo propri bond. Se l’Italia (o qualsiasi altro Paese) si trova a non poter più riuscire a raccogliere risorse sul mercato dei capitali, perché i titoli sono considerati troppo rischiosi e nessuno li acquista più neppure a prezzi elevati, il Meccanismo europeo di stabilità, con il suo capitale condiviso fra i 19 Stati dell’Eurozona, potrebbe intervenire prestando denaro a un tasso notevolmente più basso. Il MES costituisce quindi una difesa comune contro il default e un’opportunità di ristrutturare il proprio debito in modo ordinato senza correre i rischi di ricorrere in emergenza al mercato dei capitali.
È ovvio che come qualsiasi istituto di credito, le risorse vanno restituite ed il modo per farlo è ristrutturando il proprio debito e la propria capacità di produrre reddito attraverso riforme reali, non solo annunciate.
Accettare e quindi poter contare sul MES non significa pertanto necessariamente ricorrervi, è una delle possibili opzioni che il gestore pubblico può prendere in considerazione. Chi ha la responsabilità di governo dovrà attuare con serietà e puntualità nell’interesse del paese tutte le azioni necessarie per non essere costretto a farlo. Ma non accettarlo significa non disporre di una opzione in più, di un ulteriore possibile strumento di salvataggio in casi di emergenza.
Come per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), la scelta delle azioni e il possibile ricorso ai fondi messi a disposizione a livello UE dipende da chi ha la responsabilità di governo: anche in questo caso non è lo strumento in sé che va criticato e deve far riflettere, quanto piuttosto la necessità o meno di un suo utilizzo che dipende sempre e solo dalla capacità di chi ha la responsabilità delle scelte.