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…L’UNIONE EUROPEA È (ANCORA) UNA COMUNITÀ SUI GENERIS O SARÀ UNO STATO DI DIRITTO ?

Durante il regime dei colonnelli in Grecia (1967-1974) le Comunità europee furono chiamate a decidere se l’accordo di associazione sottoscritto nel 1963 fra Bruxelles e Atene dovesse essere rispettato fino in fondo da Bruxelles, ivi compresa la clausola secondo cui l’accordo preludeva ad una futura domanda di adesione della Grecia alle Comunità europee (pacta sunt servanda) o se l’arrivo dei colonnelli al potere e le loro atrocità dovesse congelarlo, in attesa del ritorno alla democrazia che potremmo definire ateniese (rebus sic stantibus).

Come sanno molti anziani democratici greci, su proposta di Altiero Spinelli e con il voto contrario del liberale tedesco Ralf Dahrendorf – poi diventato baronetto di Sua Maestà Elisabetta II e euroscettico – la Commissione propose e il Consiglio decise di chiudere le porte in faccia ai colonnelli contribuendo così alla lenta ma inesorabile agonia del regime militare.

Non fu la prima e l’ultima volta in cui i valori democratici prevalsero a Bruxelles accantonando gli interessi economici e commerciali perché lo stesso trattamento fu riservato al “regime-canaglia” di Francisco Franco che, cosciente di essere alla fine della sua dittatura, aveva avviato verso Bruxelles una inverosimile operazione di captatio benevolentiae, bloccata dopo l’esecuzione a Barcellona il 2 marzo 1974 dell’anarchico Salvador Puig i Antich con il metodo della garrota.

All’interno dell’Unione europea la questione della scelta fra democrazia e autoritarismo si pose con l’arrivo al potere in Austria, alle elezioni legislative in ottobre 1999, del populista Haider provocando l’apparente sospensione delle relazioni bilaterali fra gli allora quattordici membri dell’Unione europea e il governo di Vienna che ripresero un anno dopo grazie ad un rapporto – degno di Ponzio Pilato – scritto dal finlandese Ahtisaari, dal tedesco Frowein e dallo spagnolo Oreja a nome del Consiglio d’Europa in cui si sosteneva che il governo austriaco era impegnato “nel proseguimento della lotta contro il razzismo, l’antisemitismo, la discriminazione e la xenofobia”.

E’ noto che i criteri per aderire all’Unione europea sono formalmente molto rigorosi, essendosi ispirati a quelli che furono adottati dal Consiglio europeo di Copenaghen nell’aprile 1978 (secondo cui “il rispetto e il mantenimento della democrazia rappresentativa e dei diritti dell’uomo in ciascuno degli Stati membri costituiscono degli elementi essenziali dell’appartenenza alle Comunità europee”) e poi nel giugno 1993 che unirono ai criteri politici quelli economici.

Si noti en passant che i criteri del 1978 riguardavano indistintamente l’adesione e l’appartenenza alle Comunità pur non essendo stati inseriti nei trattati esistenti, mentre quelli del 1993 riguardavano solo l’adesione precisando le condizioni fissate dal Trattato di Maastricht.

Si noti ancora la differenza fra la formula asciutta del Progetto Spinelli secondo cui “ogni Stato europeo democratico” può chiedere di aderire all’Unione europea e la formula apparentemente più ricca ma di fatto più lasca del Trattato di Lisbona secondo cui ogni Stato europeo “che rispetta i valori previsti dall’art. 2 TUE e si impegna a promuoverli può chiedere di diventare membro dell’Unione”.

Cade dunque il rapporto fra il carattere democratico (seppure limitato alla democrazia rappresentativa) e l’appartenenza alle Comunità e ora all’Unione europea.

Approfittando di questa ambiguità e della sostanziale inefficacia delle procedure che dovrebbero consentire all’Unione europea di sanzionare uno Stato (ma di fatto un governo) che viola i valori indicati nell’art. 2, l’ungherese Viktor Orban ha costruito dal maggio 2010 quella che egli stesso ha chiamato “democrazia illiberale” in un discorso tenuto il 28 luglio 2018 alla Summer Open University and Student Camp organizzata da Fidesz, il partito da lui portato nel 1998 da posizioni liberali e pro-europee ad un conservatorismo nazionale di estrema destra.

Cinque anni dopo il partito nazionalista polacco del Diritto e della Giustizia, che aveva già condiviso governi di coalizione fra il 2005 e il 2007, ha a sua volta conquistato i pieni poteri nel Parlamento e alla presidenza della Repubblica, creando così al centro dell’Europa uno spazio politico di quasi cinquanta milioni di abitanti al cui interno i principi essenziali dello Stato di diritto sono gradualmente ma inesorabilmente violati, la corruzione è diffusa, le relazioni con i paesi terzi vicini confliggono con gli orientamenti nella politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, così come confligge l’insieme giuridico che appartiene al controllo delle frontiere, all’immigrazione, all’asilo, alla cooperazione civile, penale e di polizia.

Il compromesso raggiunto al Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre sulla cosiddetta “dichiarazione interpretativa” del Regolamento relativo alla condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione non ha certo valore giuridicamente vincolante perché impegna formalmente solo il Consiglio europeo, che lo ha inserito nelle sue conclusioni, ma – al di là dei tempi più lunghi di applicazione delle misure finanziarie per recuperare o ridurre sovvenzioni concesse a Stati che abbiano violato i principi dello Stato di diritto – restano in vigore in Polonia e Ungheria tutte quelle decisioni legislative e costituzionali che rappresentano delle gravi rotture degli elementi essenziali dello stato di diritto così come è stato definito concordemente dalla Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Il vulnus di cui soffre l’Unione europea dal 2010 in Ungheria e dal 2015 in Polonia non sarà dunque annullato dal regolamento votato a maggioranza qualificata dal Consiglio e dal Parlamento europeo, mentre rimarrà inapplicabile l’art. 7 del Trattato Di Lisbona che affida al Consiglio europeo il potere di constatare all’unanimità l’esistenza di una violazione “grave e persistente” dei valori indicati nell’’art. 2 TUE e che prevede sanzioni talmente ipotetiche da aver consentito, subito dopo il Consiglio europeo del 10-11 dicembre, al Parlamento ungherese l’adozione di una modifica della costituzione in materia di diritto di famiglia che lede i principi della non discriminazione sia all’interno dell’Ungheria che verso l’insieme dei cittadini europei.

Questo vulnus è il prodotto di un’Unione europea che chiede ai suoi membri il rispetto dello Stato di diritto ma che lo viola al suo interno quando il Consiglio europeo esercita funzioni legislative che gli sono interdette dal Trattato, quando il Consiglio europeo o il Consiglio o la Commissione violano il principio della trasparenza, quando il Trattato non prevede l’accesso specifico alla Corte per violazione dei diritti fondamentali, quando il sistema dell’Unione europea non rispetta il principio dell’equilibrio istituzionale, quando i governi nel loro insieme e all’interno dell’Unione europea non operano secondo il principio di responsabilità ed infine quando non prevale il principio del primato della legge europea sulle leggi nazionali.

Superato lo scoglio del bilancio pluriennale e del piano per la nuova generazione europea ci attendiamo ora che il Parlamento europeo (im)ponga nell’agenda della Conferenza sul futuro dell’Europa il tema della trasformazione dell’Unione in uno stato di diritto.

coccodrillo

 

 


 

Attiriamo la vostra attenzione

L’ultima newsletter di questo 2020 giunge mentre è in corso la sessione plenaria del Parlamento europeo, al termine del Consiglio europeo che ha posto le premesse per accordi che, specialmente sul tema dei diritti, non rappresentano un netto avanzamento, anzi. Come abbiamo sostenuto, in una nota diffusa il 10 dicembre scorso, “La proposta di compromesso:

- Attribuisce sorprendentemente priorità alle identità nazionali degli stati membri e non al rispetto dello stato di diritto

- Introduce un complicato meccanismo destinato a rinviare nel tempo ogni decisione sulle condizionalità di attribuire i fondi previsti dal bilancio e dal Next Generation EU

- Non protegge gli interessi delle cittadine e dei cittadini dell’Unione

- Concede agli stati membri che non rispettano lo stato di diritto il diritto di rivolgersi al Consiglio europeo che sarà chiamato a formulare una posizione comune secondo il principio del consenso”.

L’Unione europea, che ha un impianto istituzionale che persegue, tra gli altri, il fine di assicurare la solidarietà e la reciproca collaborazione tra gli Stati suoi membri, non dovrebbe accettare compromessi al ribasso sul piano dei diritti fondamentali. Sono molte le storie alle quali pensare, sul finire di quest’anno. Abbiamo quindi scelto di richiamare un’infografica dedicata ad Antonio Megalizzi, giovanissimo giornalista vittima della follia terrorista, appena due anni fa a Strasburgo. Altri esempi non mancano. La vicenda di Giulio Regeni, ancora non conclusasi positivamente per l’Italia, è un altro importante caso in cui sono evidenti le violazioni perpetrate ai danni di un cittadino italiano ed europeo. E nell’Europa di oggi è anche possibile, per il presidente di uno Stato membro fondatore come la Francia, assegnare una onorificenza quale la Gran Croce della Legion d'Onore al presidente egiziano Al Sisi, nonostante la gravissima situazione che vive l’Egitto per quanto riguarda lo stato di diritto. Ciò ha scatenato una serie di polemiche, portando personalità come Corrado Augias, Sergio Cofferati, Luciana Castellina e Giovanna Melandri a rinunciare al prestigioso riconoscimento. Anche Emilio Gabaglio, già dirigente della Cisl e della Ces, socio onorario Movimento europeo, nonché il segretario generale Paolo Ponzano, sono orientati in tal senso.

Sul tema del rispetto dello stato di diritto, riteniamo importante segnalare che sta circolando una lettera dell’associazione polacca dei giudici "Iustitia". Gli amici magistrati che ci seguono possono leggerla e firmarla cliccando su questo link.

Portiamo infine alla vostra attenzione alcune iniziative che vedranno la partecipazione del Movimento europeo, augurandoci che, in tema di diritti, alle dichiarazioni possano seguire scelte coerenti con i principi che si enunciano (e che, troppo spesso, vengono disapplicati):

Con l’augurio di trascorrere festività serene, in cui si ha anche l’occasione di riflettere forse un po’ di più che in passato, vi inviamo l’arrivederci alla prossima edizione.

 

 


 

Vi segnaliamo

 

 


 

Documenti chiave

 

 


 

Testi della settimana

 

 


 

 Carta dei diritti fondamentali

Dopo aver esaminato l’articolo 51 della Carta, veniamo a quello successivo, sempre ricompreso nelle disposizioni generali e dedicato alla portata dei diritti garantiti. Si tratta di un articolo che fissa sia alcuni principi, sia alcune modalità attraverso cui tutelare diritti altrui. Il primo comma afferma infatti che “Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Si fa poi riferimento al modo in cui si esercitino i diritti della Carta, nel loro rapporto con i trattati: “I diritti riconosciuti dalla presente Carta che trovano fondamento nei trattati comunitari o nel trattato sull’Unione europea si esercitano alle condizioni e nei limiti definiti dai trattati stessi”. Si passa poi a citare il rapporto con la CEDU: “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione”. E infine, questo terzo comma interviene sul fatto che, per quanto siano previste al suo interno delle notevoli tutele, “La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”.

L’articolo 52 afferma chiaramente, in tema di diritti, che sia necessario tutelarli con ogni mezzo legittimo, includendo anche modalità di tutela rafforzata. C’è da chiedersi se e come tale obiettivo possa conciliarsi con esigenze di natura differente, come quelle di carattere economico: oggi spiace constatare che esiste il rischio, in alcune aree dell’Unione - che abbiamo definito “zone d’ombra” - che le condizioni di vita siano incompatibili con i principi dello stato di diritto; ecco perché porre un freno alle ambizioni di un Consiglio europeo che, mentre corre alla ricerca di accordi, dimentica quanto la sua tutela sia essenziale. Si tratta di un aspetto imprescindibile per porre le condizioni di una società aperta e solidale – di cui ci siamo peraltro occupati spesso, nel corso di questa edizione della newsletter – e nell’Unione europea che oggi stringe accordi per porre le basi di una maggiore collaborazione futura ciò andrebbe sempre ricordato.

 
 


 

La giurisprudenza europea

Considerato il fatto che l’Unione europea ha posto tra le sue priorità per la programmazione futura la questione ambientale – e considerato l’aspetto essenziale del rispetto dello stato di diritto quale criterio per l’accesso ai fondi europei, che tutti gli Stati membri sono tenuti a rispettare – questa settimana ci sembra interessante richiamare alla Vostra attenzione una sentenza del 13 marzo 2019 relativa a tale ambito. È il risultato di una controversia tra la Repubblica di Polonia, sostenuta da Ungheria e Romania, da un lato, e dall’altro il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione europea. Lo Stato membro ha impugnato infatti la direttiva n. (UE) 2016/2284 che modifica la direttiva 2003/35/CE e abroga la direttiva 2001/81/CE, introducendo nuovi parametri sul tetto delle emissioni, contribuendo ad un futuro più sostenibile anche sotto il profilo dei costi sanitari che si dovrebbero sostenere qualora non si attuasse una strategia efficace di contrasto all’inquinamento atmosferico.

Sottolineiamo alcuni punti: “Durante la riunione del Consiglio del 17 ottobre 2016, la Repubblica di Polonia, l’Ungheria e la Romania hanno espresso le loro preoccupazioni in merito all’impatto economico degli impegni nazionali di riduzione delle emissioni previsti dalla proposta di direttiva e alla metodologia utilizzata per stabilire tali impegni. Dopo la votazione in Parlamento, il 23 novembre 2016, la direttiva impugnata è stata votata dal Consiglio l’8 dicembre 2016 e adottata a Strasburgo il 14 dicembre 2016. Con decisione del 30 agosto 2017, l’Ungheria e la Romania sono state ammesse ad intervenire a sostegno delle conclusioni della Repubblica di Polonia. Alla stessa data, la Commissione è stata ammessa ad intervenire a sostegno delle conclusioni del Parlamento e del Consiglio”.

Sono ben cinque i punti di contestazione da parte dello Stato ricorrente:

Con il primo e il secondo motivo, la Repubblica di Polonia sostiene che il Parlamento e il Consiglio hanno violato i principi di leale cooperazione, di trasparenza e di apertura nonché l’obbligo di motivare gli atti giuridici […];

A sostegno del suo terzo motivo, la Repubblica di Polonia fa sostanzialmente valere l’irregolarità della procedura di adozione della direttiva impugnata, dovuta alle lacune nella valutazione d’impatto, riguardanti segnatamente le conseguenze delle misure previste sull’economia degli Stati membri, in particolare sulla Repubblica di Polonia. […];

Con il suo quarto motivo, la Repubblica di Polonia sostiene che le misure necessarie per rispettare gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni previsti dalla direttiva impugnata possono comportare, a suo carico, conseguenze negative in determinati settori e costi socioeconomici particolarmente pesanti. Il legislatore dell’Unione non ne avrebbe tenuto conto e sarebbe quindi incorso in un errore manifesto adottando la direttiva impugnata, integrante una violazione del principio di proporzionalità, quale sancito dall’articolo 5, paragrafo 4, TUE. […];

Con il suo quinto motivo, la Repubblica di Polonia fa valere una violazione dei principi di uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e dello sviluppo equilibrato, sulla base del rilievo che gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni di cui alla direttiva impugnata sono stati fissati senza tenere conto della situazione economica e sociale, del progresso tecnologico e dei costi di attuazione di tali impegni nei diversi Stati membri e nelle diverse regioni dell’Unione.

Tutti e cinque i punti del ricorso sono stati ritenuti infondati e vi invitiamo perciò ad analizzare il testo questa controversia, in cui il ruolo della Repubblica di Polonia appare sotto molti aspetti più orientato alla contestazione che ad alimentare i presupposti di una leale collaborazione.

Per saperne di più, clicca qui.

 

 


 

Consigli di lettura

Sempre in tema di diritti, questa settimana vi proponiamo un testo universitario apparentemente difficile ma che, per come emerge dalla sua presentazione, non vuole lasciare indietro nessuno. Il filo conduttore è chiaro già dal titolo: “Introduzione al diritto penale europeo – Fonti, metodi, istituti, casi”. Gli autori sono due docenti ordinari di diritto penale presso l’Università di Bologna, Vittorio Manes e Michele Caianiello. L’obiettivo di questa pubblicazione è quello di, “mettere in campo un forte ed autorevole richiamo alle ragioni più profonde che impongono oramai agli Stati europei di sostenere un processo di integrazione totale, in cui ciascuno di essi è custode di garanzie e diritti comuni irrinunciabili”.

 

 


 

 Agenda della settimana

Forward look: 14 - 27 December 2020

14-20 December 2020

 

Monday 14 December

 

Tuesday 15 December

 

Wednesday 16 December

 

Thursday 17 December

 

 


Campagna di informazione sull’Europa

Antonio Megalizzi

 

M Hancock

 

 

 

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Di recentissima pubblicazione, nell’ottobre scorso, “Quei ponti sulla Drina” è una raccolta di interventi di Alexander Langer, europarlamentare, ecologista, pacifista, una figura da ricordare mentre l’Europa volge il suo sguardo al termine di questo 2020, nel corso di una crisi che ancora vede davanti a sé incertezze e che ha colpito, anche se in maniera asimmetrica, tutto il territorio europeo. Infatti, è all’Europa nel suo insieme che guardava Langer, non solo agli Stati membri dell’Unione, nella sua operazione per il dialogo e la costruzione di “ponti”. Quella di Alexander Langer è un’opera che attraversa tutto il dopoguerra europeo e che vede una delle sue massime espressioni nel Verona Forum, che, come si può leggere nel testo, “costituì un punto di incontro di democratici di diversa provenienza (liberali, socialdemocratici, riformisti, nazionalisti moderati, ecologisti e alternativi), di giornalisti liberi, di esponenti di associazioni che cercavano di costruire e rafforzare una voce comune, che faticava a trovare ascolto presso le istituzioni europee”.

Questo volume presenta un’introduzione di Sabina Langer, dottoranda in Pedagogia, redattrice, attiva in progetti in Bosnia Erzegovina da oltre vent’anni, che afferma: “La sfida innescata oggi dalla pandemia potrebbe avere una portata ampia quanto quella della caduta del muro di Berlino. Potremmo quindi cercare di cogliere il potenziale di questo cambio di paradigma, proprio come tentò di fare a suo tempo Alexander”. È a partire da queste riflessioni che Sabina traccia un quadro sulla figura di Alexander Langer che non è semplice riassumere in poche parole e che però emerge in maniera nitida, a colloquio con la curatrice del volume: l’Europa vive di dialogo e il mondo nuovo che ci aspetta sarà anche quello in cui ricostruire nuove forme di convivenza pacifica. La Bosnia Erzegovina, testimonia Sabina Langer, è stata di nuovo colpita duramente, in questi ultimi tempi di pandemia, proprio quando sembrava aprirsi un varco di speranza. Riconosciuta come Stato “potenzialmente candidato” all’ingresso nell’Unione, la Bosnia Erzegovina è una realtà che ha sofferto duramente il conflitto degli anni ’90 e che stenta ancora ad uscirne. La sua capitale rappresenta in pieno l’impegno di Alexander Langer, secondo cui  “L’Europa nasce o muore a Sarajevo”. Come afferma Sabina Langer: “Alcuni tentativi politici compiuti da Alexander per cambiare paradigma hanno avuto importanti riscontri, come il Tribunale penale internazionale (costituito anche su sua iniziativa). Alcuni semi che piantò continuano a crescere, anche insieme all’operato della Fondazione che porta il suo nome, insieme al progetto Adopt Srebrenica e all’associazione Tuzlanska Amica. Un albero a lui dedicato cresce nella piazza di Tuzla. Da quel tragico luglio 1995 in molti non si sono arresi. La situazionein Bosnia Erzegovina non è affatto rosea. La pandemia sicuramente non aiuta – come non aiutano abbastanza l’Unione europea o le Nazioni Unite. Molte persone però continuano faticosamente a vivere, ad aggiustare nel loro piccolo un piccolo pezzo di mondo. Senza perdere la speranza”.

 

 

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Il 5 novembre 2019 è stata emessa una sentenza da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea che riconosce che la Repubblica di Polonia è venuta meno ai propri obblighi di rispetto del diritto dell’Unione. Anche se non è direttamente richiamato nella parte del testo relativa al giudizio della Corte, l’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali, trattato questa settimana, secondo cui anche gli Stati membri ne “rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze”, è presente nella sentenza e viene citato nella parte del contesto normativo di riferimento.

L’oggetto del ricorso proposto dalla Commissione europea è una legge polacca di modifica di alcune disposizioni della legge relativa al pubblico ministero, che, il 12 luglio 2017, ha introdotto “in particolare riferimenti ai nuovi limiti di età per il pensionamento dei magistrati del pubblico ministero, vale a dire 60 anni per le donne e 65 anni per gli uomini”. La Commissione ha ritenuto che con tali modifiche la Repubblica di Polonia fosse venuta meno ai propri obblighi “ai sensi, da un lato, dell’articolo 157 TFUE nonché dell’articolo 5, lettera a), e dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2006/54, e, dall’altro, del combinato disposto dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE e dell’articolo 47 della Carta”.

Perciò, “la Commissione ha inviato a tale Stato membro, il 28 luglio 2017, una lettera di diffida. Quest’ultimo ha risposto con lettera del 31 agosto 2017, nella quale ha negato qualsiasi violazione del diritto dell’Unione. Il 12 settembre 2017 la Commissione ha emesso un parere motivato, nel quale ha ribadito che le norme nazionali menzionate al punto precedente violavano le suddette disposizioni del diritto dell’Unione. Di conseguenza, tale istituzione ha invitato la Repubblica di Polonia ad adottare le misure necessarie per conformarsi a detto parere motivato entro il termine di un mese a decorrere dalla sua ricezione. Tale Stato membro ha risposto con lettera del 12 ottobre 2017, in cui concludeva per l’inesistenza delle asserite infrazioni. In tale contesto, la Commissione ha deciso di proporre il ricorso in esame”.

Il testo di questa sentenza è assai consistente e richiede una lettura attenta, ma sembrano qui interessanti prevalentemente due punti da porre all’attenzione per comprendere meglio le motivazioni della stessa. Nella parte dedicata al giudizio della Corte, si legge infatti che “sia l’articolo 157 TFUE sia l’articolo 5, lettera a), e l’articolo 9, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2006/54 osterebbero alla fissazione di condizioni di età diverse a seconda del sesso per la concessione di tali pensioni”.

E inoltre: “dette disposizioni (quelle introdotte dalla legge polacca del 12 luglio 2017, ndr) introducono nei regimi pensionistici interessati condizioni direttamente discriminatorie fondate sul sesso, in particolare per quanto riguarda il momento in cui gli interessati possono godere di un accesso effettivo ai benefici previsti da tali regimi, cosicché esse violano sia l’articolo 157 TFUE sia l’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2006/54, in particolare il suo punto a), in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 1, lettera f), della medesima direttiva”.

Perciò, la Corte ha accolto il ricorso della Commissione, riconoscendo che la Polonia è venuta meno a tali disposizioni e, inoltre, anche all’articolo 19 paragrafo 1, secondo comma del TUE, “conferendo al Ministro della Giustizia (Polonia) […] il potere di autorizzare o meno la proroga dell’esercizio delle funzioni dei magistrati giudicanti dei tribunali ordinari polacchi al di là della nuova età per il pensionamento dei suddetti magistrati”.
Per approfondire, clicca qui.

 

 

 

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